“È incredibile.” Lo ripete almeno una decina di volte Ashleigh Barty durante la conferenza stampa di fine torneo. Come una bambina che sogna ad occhi aperti, l’australiana, neo campionessa del Roland Garros, sembra quasi non rendersi conto di avercela fatta. “È straordinario. So di aver lavorato e di aver fatto di tutto per essere in questa posizione, ma ora che ci sono, è incredibile“.
Ovviamente è difficile non tornare con la memoria al 2014, quando Barty decise di lasciare il tennis, soverchiata da ritmi insostenibili allora. Iniziò a giocare a cricket e a fare prove generali di una vita normale, per poi tornare nel 2016 spinta dal genuino e profondo amore per questo matto gioco con la racchetta. Senza quella pausa, sarebbe lì con la coppa in mano, come oggi? Barty è sicura della risposta. “Assolutamente no. Non so nemmeno se sarei stata qui a parlare con voi se avessi continuato a giocare a tennis, se non mi fossi fermata. È stata una parte della mia vita con cui ho avuto bisogno di confrontarmi e credo che sia stata la miglior decisione che potessi prendere in quel momento. Tornare poi è stata una decisione ancora migliore“.
Il tennis non è mai veramente uscito dalla vita di Barty, neanche in quegli anni di separazione dal circuito professionistico, ed è stata proprio questa affinità indissolubile a spingerla a tornare. “Non ho mai chiuso nessuna porta, dicendo che non sarei mai tornata a giocare a tennis. Avevo bisogno di farmi da parte, di vivere una vita normale, perché certamente la vita di una tennista non è normale. Mi serviva tempo per crescere e maturare. Ho lasciato aperte tutte le opzioni. Penso che per me tornare al tennis sia stata una progressione naturale. Giocavo e mi allenavo ogni giorno. Poi ho iniziato a sentire la mancanza della competizione, della sfida uno contro uno e delle emozioni che si provano nel vincere o nel perdere un match. Sono sensazioni così uniche e puoi provarle solo quando giochi e ti metti in prima linea; quando diventi vulnerabile e provi a fare cose a cui nessuno penserebbe“.
Una volta tornata però, non si aspettava certo di poter arrivare a vincere un torneo del Grande Slam, non in singolare almeno. “Se devo essere onesta, pensavo che magari lo avrei vinto in doppio. Ci sono andata vicina così tante volte con Casey (Dellacqua, quattro finali perse, una per ogni Slam; ma uno Slam in doppio l’ha vinto con Vandeweghe, a New York, ndr). Quella poteva essere una possibilità”. Qualcosa però è scattato nella sua mente e le ha regalato nuova convinzione e sicurezza nei suoi mezzi. “Una nuova prospettiva nella mia vita e nella mia carriera mi ha portato a crederci e a pensare di appartenere ai massimi livelli. Penso di star giocando bene e, se gioco il mio tennis migliore, posso far partita pari con tutte le migliori“.
Una dei tratti più affascinanti di Barty, oltre al suo tennis così vario ed elegante che tanti complimenti ha attirato da tutto il mondo della racchetta, è proprio il modo e la consapevolezza con cui ha scelto e costruito il proprio stile di gioco. Nessun idolo di infanzia, nessun modello di riferimento preciso, solo lei e il suo modo di vedere e interpretare il tennis. “Quando ho iniziato a giocare ho cercato di costruire uno stile unico, il mio stile. C’erano così tante giocatrici straordinarie, aggraziate, che avevano stile e talento e che cercavo di imitare quando ero bambina. Ma il mio coach mi ha sempre riportato indietro e detto “Stiamo costruendo il tuo stile“. Questa penso che probabilmente una delle cose più magiche che mi siano capitate“.
Alla lista delle cose magiche ora andrà sicuramente aggiunta questa prima importante vittoria, proprio nello Slam teoricamente più ostico per lei. Con la speranza (quasi certezza) che non sia l’ultima e che Barty continui a affrontare il gioco e le sfide con la solita leggerezza. Quella leggerezza che “non è superficialità”, come diceva Calvino, ma che anzi è lucida consapevolezza, è “precisione e determinazione”. Togliere peso, ma solo quando serve.