L’aspra contesa tra due uomini che si contendono un trofeo è un topos narrativo che appassiona la nostra specie dalla notte dei tempi. Che essa si disputi davanti alle mura di Troia, su un ring, su un campo di calcio, di basket, una pista automobilistica o un campo da tennis ha poca importanza. Ciò che conta è che susciti emozioni forti, immediate e accessibili a tutti come, per esempio, un pugno da ko che non richiede competenze particolari per essere capito nei suoi elementi essenziali. È altresì importante che le vicende personali dei protagonisti siano altamente drammatiche.
La boxe, per citare uno sport oggetto di infinite trame cinematografiche e letterarie, abbonda di personaggi che hanno alle spalle storie di riscatto e redenzione che creano empatia e immedesimazione in chi le guarda o legge. Il tennis sotto il profilo sociologico è invece percepito come uno sport riservato alle classi più privilegiate, praticato da gentiluomini e gentildonne vestiti di bianco in cui i contatti fisici sono rigorosamente banditi. Emblematica a questo proposito era l’espressione perplessa di Mike Tyson seduto in tribuna a Indian Wells quest’anno. L’ex campione dei pesi massimi sembrava domandarsi per quale insondabile ragione due atleti sani e vigorosi fossero separati da una rete.
L’infanzia dei tennisti è poi di solito idilliaca rispetto a quella dei loro colleghi pugili. Alcuni tra loro – da una parte e dall’altra – fanno eccezione a questo cliché. Ma una cosa è crescere a Brownsville senza padre e con una madre alcolizzata e diventare un pugile perché si è costretti a fare a botte tutti i giorni come il sopra citato Tyson; un’altra è crescere a Roma e diventare tennisti perché si è figli del custode del circolo tennis Parioli, come è capitato ad Adriano Panatta. Forse, la storia delle sorelle Williams che si allenavano nel ghetto schivando pallottole potrebbe fornire il materiale per un futuro film di successo.
Nel frattempo l’ottimo film “Borg McEnroe” ha regalato al tennis una dimensione epica, ma è l’eccezione che conferma la regola. Il nostro sport preferioa sembra sia oggettivamente più adatto alla grande – e pacata – narrazione storica. Tuttavia, se si ha la pazienza di indagare tra le sue pieghe quotidiane si possono trovare piccoli tesori degni di essere raccontati. Quello che segue è uno di questi.
Prima della finale di Wimbledon probabilmente poche persone, oltre al nostro Direttore, avevano mai sentito nominare Robert “Bob” Falkenburg. Chi scrive è tra le tante che non lo conoscevano. Eppure la sua è un’esistenza eccezionale. Falkenburg è un tennista americano nato nel 1926 il cui nome è stato citato in questi giorni poiché nel 1948 vinse i Championships annullando in finale due match point consecutivi all’australiano John Bromwich così come Djokovic ha fatto con Federer.
Il punteggio altalenante di quell’incontro – 7-5 0-6 6-2 3-6 7-5 – è riconducibile al fatto che Falkenburg in campo soffriva di problemi respiratori che lo costringevano a concentrare tutte le proprie energie solo su alcuni set e buttando letteralmente via i restanti. Jack Kramer affermò che la tipica partita di Falkenburg poteva finire con il risultato di 6–4, 0–6, 6–4, 0–6, 7–5 ed era caratterizzata da frequenti cadute tra uno scambio e l’altro che Falkenburg utilizzava ad arte per riprendere fiato (fonte Wikipedia). Il pubblico inglese era all’oscuro di questi fatti. Ritenne quindi antisportivi i comportamenti di Falkenburg e non esitò a manifestare sonoramente allo statunitense il proprio disappunto.
La parte più affascinante della biografia di Falkenburg inizia però dopo il suo ritiro dall’attività sportiva, avvenuto a metà degli anni ’50. Qualche anno prima Falkenburg aveva sposato una brasiliana. Nel 1950 insieme alla moglie si trasferì a Rio de Janeiro, ottenne la cittadinanza brasiliana e disputò alcune edizioni della coppa Davis indossando la maglia del Paese sud-americano. Durante i viaggi lungo il Brasile Falkenburg prese nota nota del fatto che in quell’enorme Nazione non esistevano negozi che vendessero i gelati come piacevano a lui e decise di porvi rimedio in prima persona.
Declinò quindi una generosa offerta economica di Kramer che lo voleva nel circuito tennistico professionistico e nel 1952 investì tutti i suoi risparmi per aprire a Copacabana una gelateria: “Bob’s”. Poco dopo nel suo negozio ai gelati affiancò hamburger, hot dog e milkshake creando così il primo fast food ufficiale del Brasile. Al primo se ne aggiunsero altri undici che fecero di lui un uomo molto più ricco di quanto avrebbe mai potuto diventare con il tennis. Nel 1970 rientrò con la famiglia nel Paese di origine e si dedicò – ovviamente con grande successo – alla pratica del golf amatoriale.
Nel 1974 infine vendette il marchio dei suoi negozi a una multinazionale brasiliana. Attualmente Bob’s è una catena di fast food presente in Brasile con oltre 1000 punti vendita. Il nostro protagonista è invece un signore di 93 anni che vive con la moglie in California. Sicuramente ha visto l’ultima finale di Wimbledon e sicuramente si è commosso. E anche se così non fosse, non ditecelo. Come disse Sam Silverman: mai rovinare una bella storia con la verità.