Prima, banale considerazione per spiegare l’attuale condizione del tennis russo: nessuna nazione riesce a stare costantemente ai vertici, senza attraversare alti e bassi, soprattutto in sport molto diffusi nel mondo, con tanti paesi in grado di proporre concorrenti ad alto livello. In parte è quindi fisiologico che a fasi molto positive ne seguano altre meno buone.
Nel caso della Russia si possono però identificare cause che hanno determinato prima la grande espansione e oggi le difficoltà. Le giocatrici emerse nei primi anni del 2000 erano il frutto di una precisa politica della federazione: grazie all’attenzione verso il tennis voluta da Boris Eltsin in persona, era nato un sistema di reclutamento e formazione tecnica con notevoli mezzi finanziari, che andavano in aiuto ai club e alle giocatrici.
C’erano quindi condizioni favorevoli per sostenere la cruciale fase di formazione, quella che richiede alle adolescenti viaggi e spostamenti, anche molto impegnativi, senza alcun ritorno economico immediato. Il fatto poi di essere cresciute con più nomi di valore contemporaneamente, ha avuto un doppio effetto positivo. Primo: la pressione di media e appassionati del paese non si è concentrata su una sola giocatrice, rendendo quindi meno stressante il processo di crescita e affermazione.
Secondo: fra le russe di quella generazione si era creato spirito di squadra. Mi rendo contro che parlare di spirito di squadra nel tennis sembra in contraddizione con la natura profondamente individualista di questo sport, ma ci sono molti indicatori che dimostrano come spesso all’interno della stessa nazione si formino nuclei di più tennisti che si stimolano a vicenda generando un virtuoso meccanismo di emulazione. Ce lo dicono i risultati, ma sono confermati anche dalle testimonianze dei protagonisti. Ne avevo parlato qualche anno fa in un articolo, intitolato “La WTA delle nazioni”.
Quando si trovano tenniste di talento nella stessa nazione che cominciano a misurarsi fra di loro, spesso finiscono per spingersi verso l’alto a vicenda. Tanti paesi hanno avuto nuove Top 10 a pochi mesi di distanza l’una dalla altra. Il Belgio con Henin e Clijsters nel 2001, la Serbia con Jankovic e Ivanovic nel 2007, l’Italia con Pennetta e Schiavone nel 2009-10, la Spagna con Suarez Navarro e Muguruza nel 2015, la Svizzera con Bencic e Bacsinszky nel 2016, la Francia con Mladenovic e Garcia nel 2017.
Tutte hanno in comune l’essere entrate per la prima volta in Top 10 a distanza di pochi mesi l’una dall’altra, dopo anni di “astinenza” nazionale, se non addirittura per la prima volta in assoluto per quel paese. Troppe situazioni simili per essere solo frutto del caso. E questi sono solo gli ingressi in Top 10, perché se abbassiamo un po’ l’asticella troviamo casi di altre nazioni con giocatrici cresciute contemporaneamente come Cina, Germania, Ucraina, Romania, Gran Bretagna.
E perché questo meccanismo si inneschi non è sempre indispensabile la stretta vicinanza fisica tra protagoniste, conta piuttosto uno spirito di appartenenza comune che innesca il meccanismo della emulazione. Per esempio: Sharapova è una tennista di formazione tecnica statunitense, ma non ha mai voluto cambiare nazionalità, anche quando probabilmente avrebbe avuto vantaggi economici dall’acquisire un nuovo passaporto. Si è sempre sentita russa, indipendentemente dalla sua residenza. Le russe erano in qualche modo una squadra con sentimenti comuni. Come abbiamo visto, nel 2004 Petrova, Kuznetsova, Sharapova e Zvonareva erano entrate per la prima volta in Top 10 a distanza di poche settimana una dall’altra.
In seguito, sull’onda di inizio millennio, in Russia si sarebbe consolidato un movimento così forte da essere capace di reggere anche alla assenza di finanziamenti degli anni successivi: molte giocatrici erano ormai professioniste affermate con una attività ampiamente in attivo. Il cambiamento avrebbe però inciso a medio termine, sulle generazioni successive.
Dopo l’era Eltsin (morto nel 2007) erano infatti stati chiusi i rubinetti statali e i club e le giocatrici avevano dovuto procedere con pochissimi aiuti economici. Ci ricordiamo per esempio come per mancanza di un premio in denaro la Russia si era presentata in finale di Fed Cup 2013 contro l’Italia con giocatrici fuori dalle prime cento, dato che tutte le più forti avevano rinunciato a rispondere a una convocazione non remunerata. Era il sintomo di una situazione di difficoltà che sarebbe emersa in modo più evidente in seguito.
Senza più una federazione in grado di aiutare come prima, ogni giocatrice ha dovuto cercare la propria strada in modo autonomo. Posso sbagliare, ma la mia interpretazione è che negli ultimi anni sia venuto a mancare anche lo spirito di squadra: ogni tennista è un nucleo a sé, e dunque non può prodursi lo spirito di emulazione.
Non solo: la mancanza di aiuti finanziari ha anche favorito i cambi di nazionalità con casi come quelli di Putintseva o Rybakina passate al Kazakistan, oppure di Rodionova e Gavrilova verso l’Australia. Paradossalmente in questo momento le due più forti giocatrici nate da genitori russi, sono statunitensi: mi riferisco a due giovani come Anisimova (numero 24 del ranking) nata in New Jersey e Kenin (numero 22) nata invece a Mosca.
E la attuale numero 2 di Russia Alexandrova risiede da circa dieci anni a Praga, e anche lei ha valutato l’ipotesi di cambiare nazionalità, passando appunto alla Repubblica Ceca.
a pagina 3: Le attuali Top 100 russe