“Serena gioca un torneo a parte nel circuito femminile, è troppo forte”, “Se Serena sta bene, è lei la favorita d’obbligo”, “Serena magari può faticare all’inizio degli Slam, ma quando arriva in fondo poi li porta a casa”. Quante volte abbiamo sentito affermazioni di questo tipo. E per carità fino a giusto un paio di anni fa erano anche tutte sostanzialmente corroborate dai fatti, che dicevano che sul campo la più giovane delle sorelle Williams, quando giocava al cento per cento del suo potenziale (ma anche qualcosa meno probabilmente), era un passo avanti alla concorrenza. Insomma, quando tutto era apposto, era lei la donna da battere.
Poi è arrivata la pausa per la gravidanza e il rientro ad un’età in cui molte delle sue colleghe si sono ritirate già da un pezzo. E, nonostante molti commentatori e analisti non se ne siano accorti, le cose sono cambiate. E pure tanto. Il dato più eloquente è questo: da quel titolo agli Australian Open del 2017, conquistato a scapito di Venus con il feto di Olympia già nella propria pancia, Serena non ha più vinto un torneo. Non un singolo torneo.
Ha perso inoltre tre finali Slam. Passino le due di Wimbledon contro due tenniste di esperienza e già vincitrici Major come Kerber (l’anno scorso) e Halep (quest’anno). Due tenniste peraltro capaci di coprire il campo in maniera straordinaria. Meno facile da giustificare la sconfitta contro la debuttante Osaka l’anno scorso. Se non alla luce dell’immensa pressione di poter conquistare il suo 24esimo Slam, quello che le farebbe eguagliare il record assoluto di Margaret Court, di fronte al proprio pubblico. Quella che è esplosa in una tanto furiosa quanto assurda invettiva nei confronti del malcapitato giudice di sedia Carlos Ramos. E poi ci sono i dolori fisici, quelli che la costringono comunque a giocare con il contagocce e doversi ogni tanto ritirare nel corso degli incontri. Quattro i walk out o i match non conclusi dal rientro in campo.
Insomma, questa è la Serena che si presenta in campo per la sua decima finale degli US Open. Non più così feroce, con la spada di Damocle di quel maledetto record e affetta da dolori che si possono presentare all’improvviso e metterla al tappeto. Definirla favorita sembra veramente un azzardo. Certo, ha convinto in questi US Open, lasciando la pochezza di dodici giochi dagli ottavi in poi. Ma ora cambia tutto. Ora c’è l’Arthur Ashe che aspetta di vederla con il trofeo in mano e diventare la giocatrice con più partite vinte nella storia del torneo (al momento è pari con Chris Evert a 101).
Ora dall’alta parte della rete c’è Bianca Andreescu. Che di tornei ne ha vinti quattro in quella che è la sua prima stagione a pieno regime sul tour WTA. Che di match complessivamente ne ha persi solo altrettanti in questa stagione sui 46 disputati. Che sembra una forza della natura quando entra in campo, capace di travolgere tutto e tutte. Come dimostrato anche in questa prima apparizione a Flushing Meadows nella quale è stata anche, bisogna ammetterlo, aiutata da un tabellone che via via sia è aperto come una voragine. Che è giovanissima essendo nata nove mesi dopo la prima gioia in uno Slam di Serena agli US Open del 1999.
Di motivi per sentire la pressione ne avrebbe anche Bianca. Per lei sarà ovviamente la prima finale in un Major, raggiunta solamente al quarto tentativo. In caso di vittoria eguaglierebbe il record di Monica Seles al Roland Garros del 1990 per minor partecipazioni prima di un successo in uno dei quattro grandi tornei del tennis. Diventerebbe anche la prima canadese nella storia (uomini compresi) a riuscire in quest’impresa in singolare.
A Toronto, Andreescu ha dimostrato di saper reggere alla grande il peso delle aspettative, conquistando il titolo. In finale c’era proprio Serena, costretta a ritirarsi sotto 3 a 1 nel primo set per un problema alla schiena. Speriamo non si concluda così anche questo ultimo atto del singolare femminile a Flushing Meadows. Perché di lotta e di “drama”, come dicono dall’altra parte dell’oceano, potrebbe essercene tanto, in questo scontro generazionale, rigorosamente senza favorite.