Karolina Pliskova
Prima che si cominciasse a giocare a New York, personalmente ero convinto che Pliskova fosse una delle più serie candidate ad approdare ai turni decisivi dello Slam. Più delle altre contendenti al numero 1 citate qui.
Karolina aveva infatti giocato piuttosto bene a Toronto (battuta in tre set dalla futura vincitrice Andreescu) e anche a Cincinnati, malgrado avesse perso malamente contro la finalista Kuznetsova. Malamente perché era arrivata a servire per il match nel secondo set sul 6-3, 5-4 e una giocatrice con la sua battuta invece che farsi brekkare avrebbe dovuto chiudere la partita. Non c’era riuscita e aveva finito per cedere al terzo set (3-6, 7-6(2), 6-3).
In sostanza Karolina mi era apparsa in forma, anche se con qualche incertezza agonistica. Per fare bene a New York, quindi, avrebbe avuto bisogno di un progresso sul piano della convinzione e della tenuta mentale. E invece questo progresso a Flushing Meadows non c’è stato. Eppure aveva avuto in sorte un percorso iniziale piuttosto favorevole: al primo turno la qualificata numero 138 Martincova (7-6, 7-6), al secondo un’altra qualificata, la numero 202 Bolkvadze (6-1, 6-4), e al terzo la numero 62 Jabeur, che è una tennista estrosa ma non sempre consistente. Pliskova ha superato l’ostacolo in tre set (6-1, 4-6, 6-4) e si è quindi guadagnata l’ottavo di finale.
Alla prima testa di serie incrociata, la numero 16 Johanna Konta, Karolina ha però finito per perdere, malgrado i precedenti fossero ampiamente a favore (5-1). Un match equilibrato in cui nel terzo set non è riuscita ad approfittare del fatto di servire per prima, potendo così mettere pressione sull’avversaria, ogni volta obbligata a inseguire. Il break subito a quindici nell’undicesimo gioco ha concluso un parziale negativo di 8 punti a 1 per Konta, che di fatto ha deciso il match (6-7(1), 6-3, 7-5).
Scrivendo di Pliskova oggi, dopo il fresco successo nel Premier di Zhengzhou, a maggior ragione continuo a pensare che Karolina a New York abbia davvero perso una grande occasione.
Simona Halep e Taylor Townsend
Simona Halep negli ultimi anni ha sempre faticato nello Slam americano, con due eliminazioni al primo turno nel 2017 (da Sharapova) e 2018 (da Kanepi). E ha confermato queste difficoltà con l’uscita al secondo turno nel 2019.
Quest’anno dopo aver sconfitto in tre set la lucky loser Nicole Gibbs (al rientro dopo i problemi di salute), si è imbattuta in Taylor Townsend (qualificata, numero 116 del ranking) e ha finito per perdere in tre set. Quindi nemmeno l’essersi presentata da campionessa di Wimbledon ha cambiato la tendenza negativa degli ultimi anni a New York.
Magra consolazione: se non altro Halep è stata eliminata al termine di una un match che difficilmente sarà dimenticato, perché ha riportato in auge il serve&volley (2-6, 6-3, 7-6).
Dopo aver perso il primo set, Townsend ha saputo ribaltare l’esito del match mettendo continua pressione a Simona: ha verticalizzato costantemente lo scambio in modo da far valere la sua qualità a rete e contemporaneamente minimizzando l’inferiorità nello scambio da fondo.
Nelle dichiarazioni post match Halep si è rimproverata di non aver risposto bene e di aver interpretato tatticamente male la situazione; ha spiegato che avrebbe dovuto usare di più il lob per scavalcare un’avversaria che si attaccava alla rete per coprire con la massima efficacia possibile le traiettorie dei passanti. E questo è apparso inconfutabile.
Sarebbe però sbagliato sottovalutare il match e il valore di Townsend. Ricordo che già a Wimbledon Taylor era arrivata a un solo punto dall’eliminare la testa di serie numero 4 Kiki Bertens, che l’aveva battuta per 3-6, 7-6, 6-2, dopo essere stata letteralmente graziata quando Townsend aveva mancato un dritto in avanzamento sul match point conquistato nel secondo set.
Che fosse in un ottimo momento Townsend lo ha poi dimostrato superando Cirstea al terzo turno e portando al terzo set la futura vincitrice Andreescu negli ottavi di finale (1-6, 6-4, 6-2).
Per chiudere aggiungo un paio di considerazioni su di lei, perché nel corso dell’ultimo Slam i media l’hanno spesso descritta con molta approssimazione.
Innanzitutto, a dispetto del sovrappeso, Taylor si è sempre mossa bene in campo, con una mobilità superiore a quella di molte giocatrici senza chili di troppo. Certo, se fosse più magra si muoverebbe ancora meglio, ma secondo me è sbagliato individuare negli spostamenti il suo punto debole.
Direi invece che i maggiori limiti di Townsend sono legati a una risposta non straordinaria e alla difficoltà nel ridurre gli errori non forzati nello scambio da fondo (innanzitutto con il rovescio); ed è per questo che contro avversarie particolarmente solide le conviene provare a uscire dagli schemi determinati dal solito palleggio da fondo, mischiando le carte.
Attenzione però a classificarla come una tennista che pratica sempre e comunque il serve&volley, perché questo non è vero. Ha dimostrato di essere in grado di utilizzarlo già in passato, e lo ha ribadito nelle prestazioni newyorkesi: il serve&volley è una delle possibili opzioni del suo gioco, che ha nel servizio mancino e nel dritto carico di lift i più frequenti punti di partenza. Di sicuro però, va sottolineato che la notevole padronanza tecnica e il ricco arsenale di colpi le consentono, quando le cose prendono la piega sbagliata, di mettere in campo il cosiddetto “piano B”; e forse anche il “piano C” se le circostanze lo richiedono.
E chissà che l’impresa compiuta a Flushing Meadows non l’aiuti ad accrescere la convinzione a mostrare con più continuità le doti che aveva già rivelato al mondo quando da junior aveva vinto gli Australian Open 2012 in finale contro Yulia Putintseva e poi raggiunto la finale di Wimbledon 2013 persa contro Belinda Bencic.