Si dice che esser mamme (soprattutto brave) sia un mestiere dei più difficili. Posso confermare. Io non sono mai riuscito a esercitarlo. Per difetto costituzionale. Ma so che essere mamme di tennisti o aspiranti “pro”, poi, è ancora più dura. Perché il figlio, salvo che sia stato… battezzato Roger, Rafa, Novak o Andy, all’inizio non fa che perdere. Soprattutto quando gioca con i più grandi. E man mano che diventa più bravino, il guaio è che son quasi tutti più grandi.
La mamma che vede il figlio (o la figlia, è uguale) perdere, piangere, disperarsi, ammutolirsi, ingrugnirsi, soffre come una… mamma. Più è lungo il viaggio di ritorno dal maledetto luogo della sconfitta, più atroce è il martirio. Alla mamma spesso capita di essere, per tutta la carriera in embrione del pargolo determinato, l’autista che accompagna l’aspirante tennista nei luoghi più improbabili a disputare tornei. Il papà per solito – o almeno è stato così per la mia generazione – lavora per potersi permettere di mantenere un figlio che voglia fare il tennista. Non si offendano le mamme che oggi lavorano come e più dei padri, so che i tempi sono cambiati rispetto a 20-30 anni fa; è quindi molto più frequente trovare padri che accompagnano i ragazzi ai corsi (in percentuali forse ancora più modeste rispetto alle mamme… ma non datemi del maschilista retrogrado per questo!).
Ma torniamo alla mamma (se poi è il padre, è lo stesso). Se porti il figlio in ritardo alla lezione, al corso, il maestro si arrabbia e minaccia di lasciare il figlio innocente a bordo campo (ma si arrabbia anche il genitore, perché le lezioni costano care!); se lo porti in ritardo alla partita di torneo, giudice arbitro e avversario non aspettano. Anzi, spesso si fregano le mani. La partita è persa. Se anche una sola volta su mille la mamma in ritardo ha fatto perdere una partita al figlio, beh, state sicuri che non se lo dimenticherà mai. Né il figlio, né la madre. Mai conosciuti, in quel deprecabile e sfortunato caso (è sempre colpa del traffico, eh), figli comprensivi.
Di arti varie è pieno il mondo, ma l’arte di saper consolare un figlio sconfitto, e peggio se… derubato da un arbitro miope, da un avversario scorretto, da net e righe avverse, è una delle più difficili da apprendere e praticare. Innata non ce l’ha nessuno, non è come per… ‘arti minori’ quali la pittura, la musica… è molto più difficile. E durante il match del figlio? Se non lo guardi lui si arrabbia e poi ti accuserà di indifferenza, se lo guardi e ti scappa una smorfia a seguito di un errore… guai!, “tu non capisci nulla di tennis, come ti permetti?”, “non hai visto che la palla è rimbalzata male?”, “non ti sei accorta che il tuo avversario ha fatto un colpo formidabile?”. Né applausi eccessivi fuori luogo, please, che figura gli fai fare a tuo figlio? Insomma, comunque ti atteggi (per lui eh) sbagli. La tenerezza sarà più apprezzata dagli altri piuttosto che, sul momento, dal figlio incavolato.
Tu mamma, hai un impegno? Dimenticalo! La partita di torneo non sai mai a che ora davvero comincia – eh dai, lo devi sapere che dipende da quando finisce quella precedente – e non pretendere che finisca quando ti farebbe comodo. Mica si può vincere, o perdere, a comando, con l’orologio in mano. L’orologio delle mamme non conta, i minuti non girano o girano troppo, come le ore. E se hai sfiga che piove ci vuol pazienza, si aspetta sotto l’ombrello e se il circolo non ha una club house riscaldata portati una sciarpa. La disponibilità deve essere completa. Ci sono altri fratelli, sorelle, di cui occuparsi? Si arrangino. È più facile che un campione sia figlio unico, o abbia al massimo un fratello, una sorella minore.
Mai conosciuto un campione con sei fratelli a carico di una sola mamma: non potrebbe seguirlo. Già il figlio minore non ha i vantaggi della disponibilità di cui ha goduto il maggiore. Ricordate i tanti fratelli noti del grande tennis, i Panatta, Sanchez, McEnroe, Simonsson, Radwanska, Clijsters, Djokovic, Melzer, Granollers, Bennetau, Lapentti, Cuevas, Tacchini? Guarda caso il maggiore è sempre stato il più forte. Ci sono eccezioni (Serena per Venus Williams, Sascha per Mischa Zverev, Andy per Jamie Murray e pochi altri), ma se si chiamano eccezioni…
Il tennista è, fin da bambino, votato all’individualismo. Diventa, per forza di cose, egocentrico. Spesso egoista. E anche un tantino tirchio perché se putacaso un torneo, un incontro, se lo va a giocare da solo, i soldi che gli avranno dato i genitori non saranno mai troppi. Ho conosciuto tantissimi tennisti. Quelli che hanno faticato ad emergere, non gli Agassi che regalava auto a destra e manca, né gli altri enfant prodige subito ricchi, sono quasi tutti tirchi. Potrei fare mille esempi di giocatori diventati forti in età più avanzata che non hanno mai offerto un caffè a nessuno.
Di esperienze… materne indirette posso ricordare quella di mia moglie, mai stata tennista ma in compenso provetta autista che quando portava mio figlio al circolo del tennis di Firenze a mezzora di distanza casa per un’oretta e mezzo di corso non mancava di farmi presente che per lei quell’ora e mezzo non erano mai meno di tre e mezzo, fra anda, rianda, doccia e varie perdite di tempo. Fallo un giorno, fallo due… ma se lo devi fare per cinque giorni alla settimana e più, per mesi e magari per anni, diventa un incubo. Se poi ti accorgi che il figlio neanche è contento e spensierato come quando gioca a calcio o pratica gli sport di squadra perché in quelli non avverte alcun tipo di pressione, beh ti assalgono i dubbi: “Ma gli farà bene giocare a tennis?“.
Vi invito quindi ad ascoltare sei minuti (sei…) di intervista audio che ho fatto al CT Firenze, durante il torneo challenger di cui diamo ampie cronache tutti i giorni, con la simpatica, spontanea e disponibilissima Marina, la mamma di Paolo Lorenzi.
L’AUDIO DELL’INTERVISTA
Lei era un po’ recalcitrante all’inizio perchè non le piace proprio riudire la propria voce quando la sente registrata, ma alla fine ha ceduto alle mie garbate insistenze consentendomi di scrivere un pezzullo diverso dalla cronaca di un match. Credo che più dall’audio, dai toni, potrete probabilmente capire meglio che non dalla trascrizione che sì, si può diventare anche grandi giocatori di tennis, top 50 del mondo (non giocano a tennis tutti i 7 miliardi e mezzo del pianeta, ma qualche milione la racchetta in mano l’ha presa, essere uno dei migliori 50 non è proprio banale) ma se non si ha alle spalle una mamma pronta a tutto, come Marina, è dura sfondare.
Perché è duro soprattutto l’inizio. Una montagna da scalare… sulle pendici della quale, per esempio, si arrendeva più o meno inconsapevolmente mia moglie allorquando, dovendo portare a giocare mio figlio a un torneo a Grosseto, scappando dall’uscita di scuola all’una e mezzo per essere puntuali al campo per le 16 – che poi diventavano le 18 perché la partita precedente non finiva mai – e facendo ritorno a casa poco prima della mezzanotte con ancora i compiti del liceo classico da fare, beh dopo due o tre giorni di turni superati alla meno peggio… lei, pur innamorata del figlio più di Cornelia madre dei Gracchi, finiva per augurarsi che Giancarlo perdesse… anche se le due ore di auto per tornare a Firenze erano un incubo. L’incomunicabilità resa famosa dai film di Antonioni a confronto erano gag comiche.
Un’altra volta, se vi interessasse conoscere alcuni risvolti cronachistici di un padre che per l’appunto è anche ex tennista agonista (sia pur modesto) nonché giornalista con i limiti comportamentali che le due qualifiche si trascinano dietro, vi racconterò quanto non sia semplice neppure il ruolo del padre che si trova (sia pur sporadicamente) a seguire il figlio in gara. Ma ora spazio a mamma Lorenzi. Per chi rifugge dall’ascoltare gli audio, la redazione ha ricapitolato un sunto di quel che mi ha raccontato mamma Lorenzi poco dopo una sconfitta di misura (7-5 al terzo) patita da Paolo, che ha dovuto subire – proprio quando serviva sul 5-6 – una sciocca sospensione di 6/7 minuti dovuta alla riparazione di un buco (minimo) che si era formato nella rete.
Francamente l’arbitro avrebbe potuto aspettare la conclusione del match o semmai decidere per la riparazione sul 6 pari. Paolo un po’ si è innervosito, un po’ si è freddato (ed era già piuttosto provato, a quasi 38 anni meno pause si hanno e meglio è), fatto sta che in un baleno si è trovato sotto 0-40 con tre match point da annullare e non ce l’ha fatta. Così Paolo, toscano d’adozione (è nato a Roma ma è cresciuto a Siena e tifa Fiorentina) ha dovuto lasciare il passo all’argentino Marco Trungelliti, finalista a Firenze un anno fa (battuto da Andujar, il recente quartofinalista dell’US Open ).
Meglio lasciare in pace Paolo, di pessimo umore così come il suo allenatore Christian Brandi, e parlare invece con mamma Marina, un presente da mamma, un passato da giudice di linea prima, di …autista poi, di spettatrice-fan più che soddisfatta dei sacrifici un tempo compiuti… oggi.
“Mamma di un tennista? È difficilissimo, bisogna essere presenti non essendo presenti – definizione splendida, brava Marina! te la rubo per il sottotitolo… – bisogna saper fare un passo indietro, ma accompagnarli sempre. Tutti i giorni al tennis, tutti i giorni in giro – vivendo a Siena qualsiasi posto era lontano… sono riuscita persino a stare un mese filato in Bulgaria perché Paolo voleva prendere a tutti i costi i primi punti ATP! Quando è arrivato lì si è allenato subito con (Alessio) Di Mauro, allora grande giocatore (siciliano)… sennonché dopo solo due scambi Paolo si è fatto male ed è caduto; sono dovuta rimanergli accanto, portarlo all’ospedale, si era fatto male a una caviglia. L’infortunio è durato tutto il mese. Ma alla fine è riuscito a guadagnare i suoi primi cinque punti“.
Tanta garra. Di Paolo certo, ma anche di mamma Marina! Un mese in Bulgaria non è come andare sulla Costa Azzurra. Per riuscire a conquistare quei punti, quando aveva solo 17 anni, Paolo ha dovuto anche… fingere di non essersi fatto nulla! “Ha accettato l’idea di saltellare in campo, per far vedere che era in grado di giocare altrimenti il supervisor lo avrebbe sbattuto fuori per mancanza di impegno (tanking, ndr)! Solo al terzo torneo – era un torneo satellite fatto di tre tornei più un Master – ha vinto una partita e così ha conquistato quei primi punti che sognava”. Se gli archivi del 1999 non ci ingannano, la sua prima vittoria è stata un 6-2 6-1 ai danni della wild card locale Delian Borisov.
Lungi dall’essere soltanto motivo di soddisfazioni, un figlio che vuole diventare tennista professionista rappresenta inevitabilmente anche un discreto costo. Il tennis non è sport per famiglie poco abbienti, purtroppo. Non tutti se lo possono permettere. “A quei tempi Paolo non aveva nessun aiuto dalla federazione e il primo coach se l’è potuto permettere molto tardi. Noi genitori dobbiamo investire sui figli. Che sia per il tennis o per lo studio, è importante dare loro la possibilità di fare delle scelte“.
Una famiglia che non avesse la necessaria disponibilità economica sarebbe in gravi difficoltà. L’equivalente di 25.000 euro 20 anni fa… “Vai fino in Messico, perdi al primo turno, prendi 300 dollari…”.
Oggi non ne basterebbero 40.000 per chi voglia fare un’attività internazionale di livello, (potete trovare qualche informazione più dettagliata qui) sia pur magari dividendo lo stesso coach anche con altri giocatori (come fa anche adesso Paolo con Brandi, che segue anche altri ragazzi del team di Riccardo Piatti. Napolitano, Dalla Valle… a Firenze erano tre con Lorenzi, in altri tornei sono anche cinque). Marina non rimpiange nulla della lunga avventura, anzi, visti i risultati e le soddisfazioni poi ottenute dal figlio è più che contenta: “Ai tempi delle prime qualificazioni Slam l’ho sempre accompagnato, è stato certamente anche bello (per lei che ha sempre giocato e amato il tennis). Ho girato il mondo e visto il tennis (in posti magnifici…) ringrazierò sempre Paolo per questo, mi sono divertita molto“.
E come conciliare il tennis di un giocatore professionista che è arrivato a iscriversi alla facoltà di Medicina (poi inevitabilmente poco frequentata, diversamente dal fratello maggiore di Paolo che invece è medico a Londra). “Abbiamo studiato molto ovunque, anche in macchina, viaggiando, ho potuto aiutarlo raccontandogli la storia, risentendogli la matematica…“.
Insomma bravo Paolo, certo, ci mancherebbe. Ma senza una mamma così dove saresti arrivato? Quando lo dico a Marina lei dapprima ha l’aria di volersi schermire un po’, ma poi lascia spazio alla sua naturale genuinità (mentre suo marito è stato discretamente in disparte per tutto il tempo): “Un po’ è vero, lo dico sempre!“. La mamma di Paolo, ragazzo d’oro nella vittoria come nella sconfitta, scoppia in una sanissima risata. E noi non possiamo che sorridere con lei.