L’articolo che segue, a firma del direttore Scanagatta, è stato pubblicato questa mattina su La Nazione, Il Resto del Carlino, Il Giorno
Ricordo bene la scena straziante, venerdì 11 gennaio, tre giorni prima del primo turno di quello che lui stesso pensava sarebbe stato il suo ultimo Australian Open, lo Slam che lo aveva visto sconfitto in cinque finali. Andy Murray, in lacrime, la voce strozzata, non riusciva proprio a parlare, abbandonava la sala stampa, poi tornava, e a capo chino annunciava che sì, sarebbe sceso in campo contro Bautista Agut lunedì 14, ma anche che avrebbe gettato la spugna. Non c’erano più alternative: “Sono costretto a ritirarmi, sto lottando con il dolore da 20 mesi per colpa di questa maledetta anca, ho provato di tutto, ma non ha funzionato. Avrei voluto continuare fino a Wimbledon ma così è inutile”.
Il Braveheart di Dunblane, dopo 20 mesi di sale chirurgiche, infermerie, mancate riabilitazioni era costretto alla resa. L’anca aveva messo k.o. lo scozzese. Lui, il meno vincente dei Fab Four nonostante due trionfi a Wimbledon (2013 e 2016), uno US Open, due ori olimpici, 45 tornei in bacheca, 41 settimane da numero 1 pur con la sfortuna di Prometeo deciso a battersi con gli dei, Federer il Divino, Djokovic il Robotico, messi al tappeto entrambi ben undici volte, e Nadal El Diablo, atterrato soltanto… sette!
Ma guai ad arrendersi a quei gaglioffi. Era stato più duro sopravvivere, riparato dietro una cattedra insieme al fratello Jamie, all’eccidio di Dunblane (1996) quando un folle, Thomas Hamilton, aveva ucciso a pistolettate 16 compagni di elementari e la loro insegnante, prima di suicidarsi.
Dalla semifinale parigina del 2017 persa con Stan Wawrinka, Sir Andrew Barron Murray non era più stato in condizione di giocare neppure al 50% delle sue possibilità. Nel 2018 aveva aggiunto solo sette vittorie alle precedenti 655 di 13 anni. Con lo smisurato orgoglio di sempre si era battuto fino allo stremo delle forze contro Bautista Agut, trascinandolo al quinto set dopo aver perso i primi due. Ma alla fine, zoppicante, era crollato: 6-2. E, di nuovo, sul viso pieno di efelidi erano scorse calde lacrime quando sul megavideo della Rod Laver Arena, erano apparsi in successione Federer, Nadal, Djokovic ad augurargli affettuosamente: “Good luck Andy, torna presto fra noi”.
“Ho due opzioni ora – disse – fermarmi e aspettare Wimbledon per dare l’addio lì, oppure operarmi con un intervento molto più invasivo e senza garanzie, per sperare di tornare qui fra un anno”. Una scelta dura, da uomini veri. Andy ha rischiato tutto. Si è operato e con un’anca artificiale – miracoli della chirurgia moderna – è tornato ad allenarsi come un forsennato. Dubitando però, lui come tutti, di poter tornare quello di prima. Prima solo challenger, poi doppi, al Queen’s e a Wimbledon. Ma ieri miracolo, eccolo di nuovo in finale ad un torneo 2 anni e mezzo dopo l’ultimo vinto a Dubai nel marzo 2017.
È accaduto ieri ad Anversa e proprio contro quell’avversario, Wawrinka, da cui aveva perso al Roland Garros. Andy, dominato per un set e mezzo dallo svizzero n.2, avanti 6-3 3-1, ha corso come e più di quando l’anca era quella natia, ha recuperato il break e si è salvato sia nel secondo sia nel terzo (nel quale anche è stato sotto di un break per due volte) sul 4 pari 15-40, strappando lui la battuta sul 5-4 di entrambi i set a un trasecolato Wawrinka: 3-6 6-4 6-4. Per, di nuovo, scoppiare in un pianto dirotto.
Già, anche gli Ufficiali dell’Impero Britannico, i Cavalieri di Sua Maestà la Regina piangono, a 32 anni e mezzo, più spesso di quanto non ti aspetti. E magari piangerà ancora fra pochi giorni, quando la sua adorata Kim, eterna fidanzata e poi moglie, dovrebbe dare alla luce il terzo erede. Perché Andy ancor prima che un grande campione è un umano che è stato capace di sedere su un trono rubato agli dei.