3- i tennisti russi che potrebbero chiudere il 2019 nella top 20 del ranking ATP. Oltre a uno dei più grandi protagonisti negli ultimi mesi del circuito, Medvedev, nella Race di questa settimana – a due settimane dalla chiusura del calendario quanto mai indicativa su come si concluderà la classifica ufficiale – Khachanov è 17° e Rublev 21°. Un momento straordinario per la Russia nel tennis maschile, prima a piazzare tre suoi atleti nelle prime posizioni del ranking (la seconda è la Francia con il suo terzo giocatore, Paire, al 25° posto ATP e la terza è il Canada con Raonic, 31 ATP). I tre tennisti russi, tutti molto giovani – il più “anziano” è Medvedev, nato nel febbraio del 1996 – sono i nuovi esponenti di una scuola che, dopo gli anni di Kafelnikov (ex numero 1 al mondo, con due Major in bacheca), Safin (anche lui riuscito a issarsi in vetta al ranking e vincitore di due Slam) e Davydenko (ex 3 ATP e vincitore delle ATP Finals) aveva vissuto anni di crisi, in particolar modo a seguito del fisiologico calo di Youzhny (ex 8 ATP e vincitore di dieci titoli in carriera). In coincidenza del ritiro del “colonnello” dall’attività agonistica, una scuola che anche nel femminile negli ultimi vent’anni ha profuso una serie di campionesse – Sharapova, Safina, Kuznetsova, Miskyna, Dementieva e, a fine anno scorso, tra le top ten c’era Kasatkina, classe 97 (e ora sono dieci le tenniste nella top 100) – sta vivendo quantomeno nel settore maschile uno straordinario momento.
A Mosca si giocava la scorsa settimana la VTB Kremlin Cup, l’ATP 250 più ricco della settimana (montepremi da quasi un milione di dollari), storicamente feudo di tennisti russi (vincitori di 15 delle 29 edizioni già disputate). Ad accaparrarselo è stato Rublev, definitivamente uscito dalla crisi che nei primi mesi di quest’anno lo aveva fatto uscire dai primi 100, nonostante nel 2017 fosse riuscito a vincere il primo titolo a Umago da lucky loser e ad essere il più giovane tennista nei quarti degli US Open dal 2001 in poi, risultati che lo portavano nel febbraio 2018 a guadagnare (l’allora) best career ranking di 31 ATP. Una classifica migliorata in questi ultimi mesi sino al 22 ATP occupato questa settimana, grazie alla finale ad Amburgo a luglio, ai quarti a Cincinnati e al titolo vinto qualche giorno fa nella città in cui è nato: il ventiduenne russo per riuscirci ha superato due tennisti dalla classifica mediocre (Gerasimov e Milojevic), due top 50 (al primo turno Bublik col punteggio di 6-1 3-6 6-4 e in finale Mannarino, sconfitto con un netto 6-4 6-0) e un top 30, in semifinale (Cilic con lo score di 7-5 6-4).
4 – le sole semifinali raggiunte da Stan Wawrinka nei trentaquattro tornei giocati a seguito dell’operazione al ginocchio sinistro nell’estate del 2017, che lo costrinse a chiudere la stagione in anticipo. Tornato all’attività agonistica nel gennaio dell’anno scorso, lo svizzero nato nel marzo del 1985 ha incontrato non poche difficoltà a esprimersi ai livelli ai quali era abituato: quando era andato sotto i ferri due anni fa, era al suo best career ranking di 3 del mondo ed era reduce da cinque partecipazioni consecutive alle ATP Finals. Il 2018 lo ha chiuso invece da 66 ATP con sole due semifinali raggiunte (agli ATP 250 di Sofia e San Pietroburgo), rimandando così la tredicesima chiusura di stagione tra i top 50, lui che ben tre volte ha chiuso l’anno da 4 ATP e cinque nella top 10. Nel 2019 il ritorno nella top 20 – per un giocatore capace di sconfiggere almeno tre volte ciascun Fab Four – è avvenuto dopo lo Slam newyorkese, grazie ai punti garantiti dalla finale persa a Rotterdam contro Monfils e dall’aver raggiunto ben cinque quarti di finale (tra cui quelli al Masters 1000 di Madrid e agli US Open, dove ha sconfitto un acciaccato Djokovic e portato a 5-4 il suo record negli Slam contro i numeri 1 al mondo). Rientrato dopo un mese e mezzo di assenza nel circuito la settimana scorsa, ad Anversa ha prima dovuto soffrire contro due veterani come Feliciano Lopez (6-7 6-4 7-6) e Simon (6-3 6-7 6-2) e poi ha avuto vita facile contro Sinner (6-3 6-2). In finale, avanti di un set e di un break (e strappando due volte il servizio nel terzo set) dopo una battaglia di due ore e mezza si è arreso a Andy Murray e ha rimandato l’appuntamento con la vittoria del diciassettesimo titolo ATP.
9 – le partite vinte nelle ultime due settimane da Jelena Ostapenko, la quale, nel resto del 2019, ne aveva portate a casa meno del doppio, 17. L’ex numero cinque del mondo non solo non ha vissuto una stagione degna del 2017, l’anno della sua vittoria del Roland Garros, ma ha fatto decisamente peggio anche del 2018, chiuso da 22 WTA, grazie alla finale raggiunta a Miami e alla semifinale conquistata a Wimbledon, risultati che nel complesso mostrano la sua capacità di giocare ad altissimi livelli su diverse superfici, tra l’altro in periodi piuttosto diversi della carriera. Dopo la semi ai Championship 2018, la lettone classe ’97 era entrata in una netta fase di involuzione, testimoniata da appena ventuno vittorie raccolte nei successivi trentacinque tornei giocati, nei quali aveva raggiunto solo una volta i quarti di finale (a Birmingham lo scorso giugno) e rimediato diciotto eliminazioni al primo turno. Una serie di brutti risultati che le erano costati a inizio mese la 72° posizione nel ranking, la peggiore per lei da febbraio 2016. Tra Linz e Lussemburgo, nei tornei indoor europei che chiudono il calendario femminile ha trovato la condizione per guadagnare i punti necessari per rientrare nella top 50: prima conquistando la finale in Austria, dove ha sconfitto anche due top 50 (Alexandrova e Rybakina), poi vincendo il titolo (il terzo in carriera) al BNP Paribas Luxembourg Open. Per riuscirci Jelena ha sconfitto nell’ordine la giovane statunitense McNally (7-5 7-6), la top 20 Mertens (4-6 6-2 6-2), la qualificata Lottner (duplice 6-1) e, in semifinale, Blinkova (3-6 6-3 6-2). In finale ha avuto la meglio su Goerges: l’ex top 10 e attuale top 30 è stata superata col netto punteggio di 6-4 6-1.
14 – i tornei giocati da Andy Murray negli ultimi due anni. Il britannico aveva disputato nel luglio 2017 la sua ultima partita da numero 1 nel mondo (in totale è stato al vertice della classifica ATP per quarantuno settimane) nei quarti di Wimbledon, dove fu sconfitto da Querrey. Quella di due anni fa non era stata una prima parte di stagione facile per il tennista nato a Glasgow nel maggio del 1987: l’inizio del manifestarsi del dolore all’anca destra lo aveva condizionato, portandolo, al momento della sospensione della sua attività, a essere solo settimo nella Race post Championships 2017. Successivamente alla prima operazione all’anca sostenuta nel gennaio 2018, era rientrato dopo undici mesi d’assenza dal circuito con una sconfitta al Queen’s subita da Kyrgios, non perdendosi d’animo nemmeno quando era scivolato al 832 ATP. Nei sei tornei disputati l’anno scorso aveva vinto tre partite di seguito solo a Washington, chiudendo così la stagione fuori dai primi 200. Quando a gennaio a Melbourne ha perso da Bautista Agut e annunciato la decisione di operarsi per la seconda volta all’anca, la sua carriera sembrava definitivamente segnata.
Il 32enne scozzese, invece, tornato nel circuito ad agosto a Cincinnati, dopo aver impiegato del tempo ad ingranare -a settembre è tornato dopo quattordici anni a giocare nei Challenger, perdendo a Maiorca da Matteo Viola – nella trasferta asiatica ha mostrato di essere tornato competitivo ad alti livelli: a Pechino ha sconfitto Berrettini, a Shanghai ha perso di un soffio contro Fognini. Ad Anversa – lui che è stato sinora 494 settimane tra i primi 10 del mondo – ha conquistato il 46° titolo di una carriera straordinaria. Dopo due primi turni superati in maniera agevole contro la wild card Coppeljeans e il top 50 Cuevas, Murray ha dovuto penare dai quarti in poi. Le ultime tre partite – nell’ordine contro Copil (6-3 6-7 6-4), Humbert (3-6 7-5 6-2) e Wawrinka (3-6 6-4 6-4) – per arrivare al titolo hanno richiesto tutte tre set, costringendo lo scozzese a stare in totale circa sette ore e mezzo in campo in tre giorni, a dimostrazione di una ritrovata buona condizione fisica e anche mentale (sia in semi che in finale ha rimontato un set).
14 (bis) – le sconfitte rimediate nel 2019 da Denis Shapovalov contro avversari peggio classificati. Il mancino canadese classe 1999 è arrivato la scorsa settimana a Stoccolma con un ranking, 34 ATP, peggiore di quello con il quale aveva iniziato la stagione: colpa di alcuni mesi di flessione seguiti alla semifinale di Miami ad inizio primavera (era per lui la terza in un Masters 1000 dopo quelle di Montreal 2017 e di Madrid lo scorso anno, tutte raggiunte quando ancora doveva compiere vent’anni). Dopo l’ottimo torneo vissuto in Florida, che gli aveva garantito l’accesso nella top 20, Denis ha vissuto un forte periodo di appannamento, arrivando a giocare ad agosto i Canadian Open con sole due vittorie e ben sette eliminazioni al primo turno rimediate tra aprile e luglio. Le semifinali a Winston Salem e Chengdu non bastavano a fermare la discesa in classifica sin fuori alla top 30 dopo un anno di permanenza in questa fascia di classifica.
Una flessione che lo faceva anche passare ad essere, da secondo quale era, quarto nello speciale ranking della Next Gen (non più solo dietro a Tsitsipas, ma superato anche da Auger- Auliassime e De Minaur). Iscrittosi per la prima volta a Stoccolma, sede del Inthrum Stockholm Open, ATP 250 dalla gloriosa tradizione, ha ben pensato di vincere il primo torneo della carriera in una sede piccola, ma prestigiosa. Nell’albo d’oro della competizione svedese, svoltasi per la prima volta nel 1969, si trovano infatti, oltre a tanti campioni di Major (tra i quali il nostro Adriano Panatta), tanti ex numeri 1 (Biorn Borg, John McEneroe, Mats Wilander, Stefan Edberg, Boris Becker, Ivan Lendl e Roger Federer). Un successo molto importante dal punto di vista psicologico e della classifica (Denis è tornato nella top 30, per la precisione è 27°), meno da quello tecnico, visto che Shapovalov in Svezia non ha dovuto sconfiggere alcun top 50 (ma quest’anno ben cinque volte aveva perso contro giocatori non inclusi in questa fascia).