Da Milano, il nostro inviato
Dietro la straordinaria stagione di Matteo Berrettini, culminata nella qualificazione alle ATP Finals, si nasconde anche lo zampino di Craig O’Shannessy. L’australiano, membro importantissimo anche del team di Novak Djokovic, è probabilmente il maggior esperto mondiale di statistiche legate al tennis e presta i suoi servigi anche all’ATP e alla FIT, oltre che ai quattro tornei dello Slam. Lo abbiamo raggiunto nella pancia dell’Allianz Cloud di Milano, casa delle Next Gen Finals, per un’intervista esclusiva.
Avrai due giocatori da seguire a Londra e la cosa più imprevedibile è che entrambi giocheranno contro nel primo incontro del torneo
A volte le cose vanno così. Io in realtà sarò ad una conferenza di coach ad Anversa, in Belgio. Guarderò da lontano e arriverò a Londra martedì, per il secondo match di entrambi. Ovviamente è una buona cosa perché non dovrò tifare per uno dei due (ride)!
Puoi spiegare ai nostri lettori il lavoro che fai con Matteo?
Essenzialmente il mio lavoro si compone di due fasi. La prima consiste in un’analisi dell’avversario: punti di forza, punti deboli, schemi preferiti. Raccolgo tuti i dati e li mando al team. Il mio lavoro consiste nel mostrare il miglior modo di giocare contro determinati giocatori. La seconda parte riguarda l’analisi del gioco di Matteo. Quali sono le cose che funzionano e quali invece sono magari le debolezze su cui lavorare. Si tratta di avere una piena consapevolezza del perché Matteo vince e di identificare quali sono gli aspetti da migliorare, poi si guarda dall’altra parte del campo per trovare la corretta strategia di gioco per ogni match.
Con Novak ti sei trovato per le mani una superstar già formata, Matteo invece è un giovane che sta ancora crescendo. Ti aspettavi che riuscisse a qualificarsi alle ATP Finals quest’anno o era qualcosa di impronosticabile?
Quando ho cominciato a lavorare con il suo team ho visto subito un immenso talento in Matteo. I giocatori che fanno bene in questo sport hanno sempre un ottimo servizio e un ottimo dritto e Matteo ha entrambi. Il fatto che queste due armi funzionassero già così bene era una gran cosa. So che suona come un cliché, ma come allenatore devi sempre guardare match dopo match, settimana dopo settimana. Non abbiamo mai fatto piani a lungo termine. Certo si guarda sempre un po’ più avanti, ma si tratta sempre di dire “ok, chi è il prossimo avversario? Come posso vincere questo incontro?” e ripetere il processo ogni settimana.
Quali pensi che sia l’aspetto del gioco nel quale Matteo può migliorare maggiormente?
Quando diventi numero 8 del mondo i margini di miglioramento sono sottili, ma possono fare una grande differenza. Passare dal numero 80 del mondo al numero 8 è difficile, ma passare dal numero 8 al numero 1 è ancora più difficile. Il rovescio è molto buono. Non è un problema di come colpisce la palla, ma dove la colpisce. Se la colpisco qui, dove posso aspettarmi la prossima palla? Ho tempo per recuperare o no? L’aspetto mentale conta tantissimo. Nella partita persa contro Thiem ha giocato benissimo, ma aveva di fronte il secondo miglior giocatore della stagione per match vinti al set decisivo. Per Thiem trovarsi sotto di un set non è un particolare problema, non esce mentalmente dalla partita. Matteo non deve avere rimpianti per quel match, ma è un aspetto su cui lavorare.
Probabilmente Matteo avrebbe sperato un sorteggio migliore per le sue prime Finals. Djokovic, Federer e persino la rivincita con Thiem…
La partita con Djokovic sarà la più difficile sicuramente. Novak fa sempre bene contro gli avversari che picchiano forte e i suoi colpi a rimbalzo sono i migliori del circuito. Mi piace che sia la prima partita perché a prescindere dal risultato, avrà modo di sentire l’atmosfera e familiarizzare con il campo e la folla. Le partite in cui ha più possibilità di vittoria sono quelle contro Federer e Thiem. L’ideale sarebbe prendere il primo incontro come un allenamento. Se vince sarà un bonus, se perde potrà sfruttare l’esperienza per affrontare al meglio gli altri due.
Sembra che le superfici stiano uniformando molto. Negli anni ’90 erano rapidissime e si vedevano moltissimi ace e servizi vincenti, mentre successivamente hanno cercato di rallentarle molto. Cosa dicono i dati?
Nel tennis di oggi, gli scambi da un colpo (ace o servizi vincenti) rappresentano la maggioranza: circa il 30%. Le velocità delle varie superfici si stanno uniformando. A Wimbledon gli scambi tra gli zero e i tre/quattro colpi costituiscono il 71% del totale, Australian Open 70%, US Open e Roland Garros circa il 68%. Questo è un chiaramente un segno. Addirittura nel 2016, 2017 e 2017 ci sono stati più scambi tra gli zero e i tre/quattro colpi al Roland Garros che allo US Open. La terra è diventata più veloce, mentre il cemento più lento, probabilmente perché viene messa più sabbia nella vernice. A Wimbledon l’erba non è veloce come un tempo. La scelta è tutta nelle mani dei tornei che decidono quanto rendere veloce la superficie.
Non credi che questo tolga al tennis il fascino del doversi adattare a condizioni diverse?
Probabilmente sì. Io sono personalmente un fan del serve&volley e un campo più rapido che possa promuovere questo tipo di gioco ad esempio sarebbe ottimo, così come una superficie più lenta al Roland Garros magari. Invece le superfici sono simili e anche gli stili di gioco sono abbastanza simili.
Quindi sta ai coach trovare delle soluzioni tattiche per variare?
Esattamente. Una cosa che emerge dai dati è che il serve&volley funziona ancora. Nella finale degli US Open ad esempio, Nadal e Medvedev, non potendo prevalere l’uno sull’altro da fondocampo, hanno fatto serve&volley per un totale di cinquanta volte.