da Madrid, il direttore
Mentre tutti in tribuna e sala stampa ci affannavamo a fare mille calcoli, a pensare che cosa sarebbe mai successo se anziché vincere tre match su tre contro gli USA ne avessimo vinti solo due su tre, e quanti set in quel caso potevamo permetterci di perdere per non restare dietro alla Russia – in quel momento la miglior seconda fra quelle che avevano già giocato due incontri – è andata a finire che l’ItalDavis ha visto svanire tutti i suoi sogni di gloria perdendo anche con gli Stati Uniti, con lo stesso punteggio con il quale aveva perso con il Canada: 2-1. Mentre con il Canada ci eravamo tolti subito il pensiero, cedendo entrambi i singolari, prima Fognini con la rivelazione Pospisil, poi Berrettini con Shapovalov, e alimentando una fievole speranziella con il doppio vinto da Berrettini/Fognini su Shapovalov/Pospisil, con gli Stati Uniti siamo soltanto partiti con il piede giusto per poi perdersi per strada.
Fognini è riuscito a prendersi una bella rivincita sul gigantesco Opelka (2m e 11cm) che lo aveva battuto al primo turno dell’US open e che anche ieri ha messo a segno un bel numero di ace, 22, ma ha palesato tali limiti di mobilità e tecnici (un rovescio quasi sempre inguardabile) che francamente stupisce come possa essere approdato a n.36 nel ranking ATP. O forse non stupisce, ma era meglio se si dava al basket. Il suo non è tennis. O quantomeno è tennis inguardabile. Che meraviglia, a confronto, il tennis fantasioso e talentuoso di Fognini che – forse per imitazione di chi aveva di fronte – per la prima volta in carriera ha fatto registrare 16 aces in un match sulla corta distanza dei due set su tre. Fabio, incitato a gran voce da diverse centinaia di fan italiani, ha vinto il primo set 6-4 grazie a un break nel terzo game, è arrivato al tiebreak nel secondo vincendo regolarmente tutti gli scambi contro il semovente americano, ma lì si è disunito quando ha sbagliato una volée facilissima a campo aperto sul 5-3 per Opelka.
Avrebbe così recuperato il minibreak subito inizialmente. A seguito dell’errore banale si è imbufalito, ha fracassato per la rabbia la sua Babolat e sul 6-4, dopo aver annullato un primo set point, ha regalato malamente un dritto. Però è stato bravo a recuperare la necessaria serenità subito dopo nel terzo set e già al secondo game ha strappato la battuta a Opelka con uno straordinario dritto passante in corsa. Poi ha vissuto di conserva fino al vittorioso 6-3. Però quel set perso bruciava a tutti. Perderne un altro avrebbe significato – in quel momento – non poter più raggiungere la Russia.
Dopo di che ci si attendeva però che Berrettini, nel duello inedito con Fritz, n.32, riscattasse la sconfitta patita con Shapovalov quando si era mangiato un vantaggio di un minibreak nel tiebreak decisivo commettendo a rete un errore piuttosto grossolano. Matteo ha illuso nel primo set, grazie al break conquistato sul 5 pari, ma ha perso il secondo nel quale era stato il solo ad essersi conquistato una palla break, sul 3 pari, ciccandola con una risposta di dritto fuori. Al tiebreak è stato sotto 4-1, senza approfittare della debole seconda palla di Fritz (125 km orari e anche 122), ma una volta risalito sul 4 pari pensavo avesse il match in mano, soprattutto dopo uno schiaffo al volo di dritto molto coraggioso per raggiungere il 5 pari. A quello ha invece seguito un dritto in rete e Fritz ne ha approfittato nel punto successivo per trascinare il match al terzo.
E lì ci siamo tutti resi tristemente conto di come Berrettini aveva finito la benzina. Gli incessanti incitamenti di un gruppo di tifosi e tifose del Tennis Modena, di un altro gruppo toscano arrivato da Montemurlo, di una coppia di ragazzi di Cosenza che sedevano vicino a chi scrive, non sono valsi a resuscitarne la condizione precaria. Matteo ha salvato due pallebreak con l’orgoglio e la forza della disperazione nel primo game, ma non quella del terzo game (rovescio in rete) e del quinto, perso addirittura a zero, tanto si era accesa la spia rossa. E noi tutti, demoralizzati e tuttavia ancora speranzosi, eccoci ancora lì a far calcoli astrusi per capire se – perso di vista l’obiettivo russo – ci potessimo lasciare alle spalle qualche altra delle nazioni già seconde, il Belgio ad esempio appena battuto dall’Australia.
Finché poco dopo è arrivata la ferale notizia che l’Australia si era comportata, sul 2-0 con il Belgio, come il Canada la sera prima con gli Stati Uniti: Peers e Thompson si erano cioè ritirati dopo un solo game del loro doppio. Vergogna! Si dovrebbero prevedere sanzioni in questi casi, anche se diventa difficile applicarle. Il certificato medico facile lo sanno produrre tutti i dottori delle varie squadre. Per via di un regolamento assurdo – che verrà certamente modificato, ma ormai non prima della prossima edizione – la squadra che vince per il forfait altrui vince 6-0 6-0. Con ciò squilibrando tutti i conteggi di game vinti e persi con le altre squadre. Per via di questa anomalia… il Belgio aveva già un quoziente migliore rispetto ad un’Italia anche eventualmente vittoriosa nel doppio. E migliore anche degli USA. Motivo per cui il risultato del doppio e dell’intero confronto italo-americano sarebbe stato assolutamente ininfluente. Ed è stato ininfluente. Scoccia soltanto aver perso anche quello, sebbene Sock e Querrey non siano davvero gli ultimi arrivati della specialità.
Io non so se in campo i due capitani, Barazzutti e Fish, sono stati messi al corrente del pateracchio australo-belga. Fatto sta che il doppio è andato avanti fino alle 4 del mattino sebbene non contasse niente, salvo che per potere dire… questa squadra ha battuta l’altra 2-1. E purtroppo alla fine sono gli USA a poter dire di aver battuto l’Italia 2-1. Da un lato, nella sconfitta, la consolazione di non dover recriminare per un’eliminazione che senza quella regola assurda del 6-0 6-0 avrebbe potuto essere ingiusta –anche se in questo giovedì ci sono altre squadre che devono completare le partite del girone eliminatorio a tre e avrebbero potuto far meglio anche del Belgio – dall’altro la delusione per aver perso due incontri su due. Contro buone squadre ma non trascendentali.
Infatti eravamo considerati sulla carta la squadra favorita del girone, ma in questo senso la nuova rivoluzionata Coppa Davis non è stata diversa dalla vecchia e più nobile Davis. Le classifiche contano il giusto in questo genere di gare. Quando non contano affatto. Ne avevamo avuto riprova con il Canada quando Fognini n.12 ATP aveva perso in due set da Pospisil che è n.150 del mondo, prima che Berrettini cedesse a Shapovalov che gli sta dietro di sette posti (da n.8 a n.15). E ieri purtroppo Berrettini, che pur ci ha dato incredibili e innumerevoli soddisfazioni in questo 2019, ha ceduto al n.32 che è un gran corridore, un bell’atleta che recupera tutto, che ha un bel rovescio solido e un dritto invece ballerino, scoppiando nel terzo set.
Capitan Barazzutti aveva dichiarato “beh questa Coppa Davis potremmo anche vincerla” e invece non siamo finiti neppure ai quarti, fra le prime otto. Poteva andare anche peggio a questo punto: cioè finire fra le ultime due, che avrebbe significato retrocedere. Invece saremo fra le 12 che fra un anno, a marzo, dovranno battersi per riconquistare un posto fra le diciotto del 2020, quando si spera che questa Coppa un po’ improvvisata, e concentrata in soli sette giorni, abbia fatto passi avanti sotto il profilo organizzativo, magari conquistando due o tre giorni in più per poter avere uno svolgimento meno frettoloso, più decoroso.
L’Italia del tennis non ha mantenuto le speranze qui, ma ha fatto il suo dovere comunque per tutto quest’anno. Non sarebbe quindi giusto lamentarsi per una doppia sconfitta che ci può stare. Il nostro gruppo, insieme a quello di Francia e Serbia (più il Giappone cui però mancava Nishikori) e di Spagna, Russia e Croazia (però orfana di Cilic), era uno dei più difficili. E un Fognini un tantino malandato per il solito problema a un piede – anche se soprattutto nei due doppi ha giocato alla grande – e un Berrettini stanchissimo per il tour de force di questi ultimi mesi, non hanno saputo far meglio.
Riguardo a questa Coppa, che ha comunque il grande merito di aver riunito i media e le tv di tutto il mondo e che farà parlare di sé nei prossimi giorni anche nelle nazioni che saranno state eliminate tipo la nostra – non è un merito da poco, in passato la Davis veniva ignorata dalle nazioni non impegnate nella fasi finali – si sussurra che fra un anno a Madrid ci sarà un quarto campo coperto dove potrebbero finire per disputarsi semifinali e finali, e forse pure i quarti. Dovrebbe essere lo stadio con una capienza di 20.000 posti in centro a Madrid, quello che ospita le partite di basket e che quest’anno Pique e soci non erano riusciti ad accaparrarsi. “Dovevamo partire con questa nuova Davis nel 2019 per non farsi precedere dalla ATP Cup e lo stadio era già prenotato da altri eventi”.
Sono le sette del mattino, spero che a questi orari folli si metta riparo fra un anno, se l’ATP invece di fare tante chiacchiere a vuoto consentisse all’ITF di poter disporre di due settimane, o anche solo di 10 giorni – e magari a settembre quando a Madrid il clima è più sopportabile e i giocatori sono meno stanchi (anche se li abbiamo visti impegnarsi tutti allo stremo delle loro forze) – ma per finire voglio aggiungere un commento alla conferenza stampa di Djokovic, di cui dovreste aver letto qui un estratto.
Io la trovo intelligente ma al tempo stesso davvero sorprendente quando dice che “il problema è sempre stato il calendario” e poi che una soluzione “avrebbe potuto essere la fusione fra le due manifestazioni, Davis Cup e ATP Cup, perché non ha senso che si giochino entrambe a sei settimane l’una dall’altra”. Poi però dirà: “Se ne parla da tre anni!”. Ma come! Poteva rilasciare quelle dichiarazioni chiunque, ma non chi ha il ruolo di Djokovic, presidente dei giocatori ATP. Se infatti si è dato vita a due manifestazioni a squadre a sei settimane l’una dall’altra… l’ultimo che può cadere dalle nuvole è lui. L’ITF è corsa ai ripari organizzando in fretta e furia questa coppa Davis a Madrid dopo aver trovato il finanziamento della Kosmos di Piqué semplicemente perché l’ATP voleva scippare la tradizionale competizione a squadre dell’ITF, la Coppa Davis.
La vecchia Coppa Davis è stata a più riprese boicottata dai giocatori sulla spinta di agenti che dalla Davis non si mettono in tasca un euro, mentre dalle esibizioni sì, eccome. Con la Davis messa in difficoltà dagli stessi giocatori in lobby, ecco che l’ATP ha pensato bene di farle concorrenza lanciando l’ATP Cup di concerto con gli australiani. Djokovic, presidente del Council dei giocatori, non poteva non sapere tutto ciò già molto tempo fa. Che oggi venga a raccontarci che basterebbe un solo evento e non servono due… è più che giusto e condivisibile. Ma non cada dal pero come se non sapesse che è l’ATP che sperava di togliere l’ultima fetta di potere rimasta a un’ITF che conta sempre meno: l’organizzazione della Davis.
Nel ‘90 i giocatori si impossessarono del circuito e battezzarono l’ATP Tour diventando indipendenti rispetto al Grand Prix, che con i suoi tornei era stato sempre sotto l’egida dell’ITF. Ma l’appetito viene mangiando e l’ATP avrebbe voluto sostituirsi con la ATP Cup alla Coppa Davis in chiara difficoltà perché i giocatori più importanti, tutti membri ATP, non volevano più giocarla perché – soprattutto dopo averla vinta una volta – non era sufficientemente redditizia per loro (e ancor più per i loro agenti). Oltre che priva di punti ATP che l’ATP dopo averli introdotti tanti anni fa li aveva tolti, ovviamente per far un dispetto all’organismo concorrente. Ci sono tanti milioni di dollari in ballo, con sponsor, tv, etcetera.
La federazione australiana (che farebbe parte dell’ITF ma di fatto segue i propri interessi) e l’ATP hanno stretto un’alleanza per dare il via all’ATP Cup onde avere il maggior numero dei giocatori Down Under fin dall’inizio dell’anno e prima dell’Australian Open. Chiari e comprensibili gli interessi della federazione australiana, ma quelli dell’ATP? Chiaramente mettersi in concorrenza con l’ITF e la Davis, per far decollare un’altra manifestazione a squadre con il sostegno dei propri iscritti.
Dando il via dalla ATP Cup – di cui hanno annunciato la composizione dei gironi giusto una settimana prima della Coppa Davis per una evidente manovra di disturbo (la gente non capisce più con quale squadra deve misurarsi quella del proprio Paese, con quelle della Davis o con quelle della ATP Cup? Vaglielo a spiegare ai non addetti ai lavori…) – sono stati uccisi tornei di lunga tradizione come Brisbane e Sydney, si sono fatti infuriare gli sceicchi del Qatar che organizzavano il loro torneo a gennaio da anni e anni e ora per avere top-players devono pagare ingaggi che solo loro possono permettersi… ma certo non sono contenti.
L’ATP ha anche protetto notevolmente la Laver Cup assegnandogli una settimana a settembre che avrebbe fatto molta gola all’ITF per la sua coppa Davis. Della produzione televisiva e mediatica della Laver Cup si occupa la Federtennis australiana che collabora strettamente con l’agenzia di management di Federer. Il fatto che la Laver Cup abbia ottenuto che i propri risultati fossero conteggiati fra gli head to head ufficiali ATP, inclusi perfino i tiebreak di una manifestazione che non prevede il terzo set ma un long tiebreak, per me è una decisione incredibile, direi scandalosa. Sono così saltate le statistiche dai tempi di Van Allen, l’inventore del tiebreak, in poi.
Allora che adesso – dopo tre anni che se ne discute – Djokovic dica “ma perché non fondiamo i due tornei a squadre?”, mi fa sorridere. E Nadal, che naturalmente sposa un evento che si gioca e non si può giocare altro che a Madrid (unica sede con tre campi coperti, se non si vuole andare in Australia o a Indian Wells dove i giocatori europei certo non vogliono andare in questo periodo dell’anno) dice: “Non vedo altra soluzione che un’unica manifestazione nell’arco di due mesi. Non posso parlare per l’ATP – come potrebbe parlare invece Djokovic – ma abbiamo finalmente l’opportunità di avere una grande gara, occorre trovare un accordo fra ATP, ITF e una società importante come Kosmos, che possa portare questa gara a un altro livello… Il nome? Credo che Coppa Davis sia il nome giusto perché è parte della storia del nostro sport. Sarebbe grande riuscire a mettere tutti insieme”.
Oh, possibile che si sveglino tutti adesso? Dopo che per tre anni si sono lanciati piatti e stoviglie?