Siamo alle semifinali, penultimo snodo di un torneo femminile sfaccettato come si conviene: il senso dell’adagio sempre più in voga secondo cui le prime 50 del listone WTA, ma forse anche le prime settanta, avrebbero tutte una chance di vincere qualsiasi titolo è stato rispettato fino a un certo punto, tuttavia. Scorrendo l’infinita lista di pronostici, valutazioni tecniche e previsioni più o meno influenzate da precedenti, circostanze e sensazioni da off season esternate dagli aruspici della pallina di feltro, si può dire con ragionevole margine di approssimazione che due iscritte su quattro alle final four di Melbourne potevano dirsi ampiamente indiziate di una simile performance.
Per diverse ragioni, non poi così dissimili, Ash Barty e Simona Halep erano racchiuse nel ristrettissimo novero, se non si può parlare di favorite vere e proprie, di partecipanti comprese nella prima griglia di pretendenti al trofeo. La beniamina di casa e la romena nel 2019 si sono divise i due Slam disputati lontani dai campi duri, ma nulla lasciava presagire che la casuale e transitoria insofferenza al cemento dei grandi appuntamenti non potesse essere superata qui. Più solide, convinte e rispettose dei pronostici favorevoli in misura maggiore rispetto alle dirette inseguitrici, Ashleigh e Simona hanno raggiunto il penultimo atto in discreta scioltezza. Se però la numero uno da Ipswich nel torneo ha passato almeno due brutti momenti, cedendo il primo set in assoluto a Lesia Tsurenko e il secondo nell’ottavo con Riske, Halep qui è arrivata in carrozza, con uno score immacolato e una diffusa sensazione d’impotenza imposta alle nolenti rivali eliminate.
Halep è la tennista che tra le colleghe più si è distinta per costanza di risultati e ranking nell’ultimo lustro, ma la virata che da continua e talentuosa interprete l’ha resa contendente perpetua nei torneoni da almanacco è arrivata con lo Slam di Parigi, messo in bacheca ormai quasi due anni fa. “Sapevo di essere in grado di giocarmi i traguardi più prestigiosi, ma c’era qualcosa che mi bloccava. Quando ho vinto la prima finale di uno Slam mi sono detta che allora non era impossibile, ed eccomi qui“. Eccola qui, minacciosa come poche, dopo aver reso infelice la giornata del primo quarto Major nella carriera della sventurata Annett Kontaveit, alla quale ha concesso il brodino di due giochi. “Nel tennis la perfezione non esiste, ma senza falsa modestia credo di averla avvicinata alquanto, quest’oggi“. Confermiamo.
L’ultimo ostacolo prima della finale, che sarebbe la seconda in carriera a Melbourne dopo quella ceduta nel 2018 alla già rimpianta Caroline Wozniacki, ha le sembianze di Garbine Muguruza. Insieme a Sofia Kenin, e addirittura più dell’americana di Mosca, la picchiatrice nata a Caracas era dalla maggioranza degli osservatori inattesa a uno stadio così avanzato del torneo. Mai oltre gli ottavi di finale in un Major dal Roland Garros 2018, Garbine era reduce da un 2019 da pianto appena adornato dal titolo di Monterrey, unico evento in cui la tennista di passaporto spagnolo avesse superato l’ostacolo dei quarti di finale nell’anno chiuso da poco. Terminata la tragica partnership con Sam Sumyk, sul cui capo continua a pendere l’anatema di Vika Azarenka, e riallacciati i rapporti con Conchita Martinez, prima artefice del suo trionfo a Wimbledon nel 2017, Muguruza si è improvvisamente ridestata, ed è cresciuta in maniera esponenziale con il passare dei match. “Abbiamo fatto un ottimo lavoro in off season – ha detto Conchita, fino a stamane ultima spagnola a guadagnare le semifinali dell’ Australian Open esattamente vent’anni fa -, ho trovato Garbine rasserenata. Sta ritrovando un gioco estremamente aggressivo da fondo campo, fatto che le permette di chiudere molti punti facili anche in avanzamento. Il suo tennis cresce insieme alla sua fiducia e fisicamente sta alla grande. Scorgo prospettive interessanti per il futuro“.
Garbine resta una giocatrice insondabile: se il cannone è preciso, per l’avversaria di là dalla rete sono dolori, anche se per stabilità, mobilità, e acume tattico l’ago della bilancia pende ancora sensibilmente dalle parti di Costanza. I due precedenti giocati sul duro su un totale di cinque sono finiti nelle mani della spagnola, ma Halep ha vinto l’ultimo nel corso della trionfale campagna di Parigi 2018 e non perde una semifinale Slam dal leggendario US Open 2015, quando a batterla fu la futura campionessa Flavia Pennetta.
Sospinta da un’intera nazione e favorita per obblighi di classifica ed esperienza oggettiva, Ash Barty contenderà un posto nella finalissima a Sofia Kenin, la più giovane tra le tenniste superstiti con un paio di interessanti record legati alla carta d’identità nel mirino: dovesse ridurre in lacrime la Rod Laver Arena, Kenin diverrebbe la tennista più giovane a battere una numero uno in carica nel corso di un Major da quando Muguruza, ma guarda, sconfisse Serena a Parigi nel 2014, e contemporaneamente la più giovane finalista in Australia da Ivanovic 2008. La bionda Sofia, che vincendo la semifinale farebbe per la prima volta il proprio ingresso nella top ten e vincendo il titolo sarebbe addirittura la capofila delle tenniste USA nel ranking femminile, ha battuto Barty una volta su quattro (a Toronto, la scorsa estate) ma ha perso l’unico precedente Slam (sempre lo scorso anno, a Parigi). Ash, sorridente nella conferenza stampa seguita al notevole successo ottenuto ai danni di Petra Kvitova, ha più volte fatto sapere che il suo avversario più grande, visti gli annessi e connessi logistici della situazione, e il particolare stato emozionale della stessa, è la pressione derivata dal dover giocare in casa, affrontando il convulso calore di tifosi, stampa e sponsor, ma anche l’importantissimo appuntamento con la storia. Già prima semifinalista nello Slam di casa trentasei anni dopo Wendy Turnbull, Ashleigh si gioca una finale che agli australiani manca da quarant’anni esatti senza distinzione di genere: l’impresa riuscì proprio a “Rabbit”, che però fu costretta a cedere l’ultimo atto a una grande Hana Mandlikova ancora non naturalizzata.
Barty è già certa di conservare la sua posizione sul trono della classifica, comunque vada, ma l’occasione è ghiotta. Kenin, che si è detta “tesa, ma fino a questo punto in grado di vincere la tensione, o gran parte di essa, una volta iniziati i match“, sta salendo a gradini: nessuna esplosione improvvisa ma una crescita costante e tanta convinzione nei propri mezzi. Barty uno Slam l’ha già vinto e ha le armi tattiche per disinnescare la notevole potenza dell’avversaria. In finale, dalla parte alta, ci aspettiamo lei.