Abbiamo provato a incrociare numeri, dati, sensazioni, curriculum vitae e archivi storici tanto recenti quanto lontani, ma questi Open australiani sono stati generati per smentire qualsiasi valutazione analitica condivisibile e condivisa dai più, e per carità di patria non ci azzardiamo a parlare di pronostici. Le valutazioni messe insieme dalla quasi totalità dei cosiddetti osservatori esprimevano un giudizio compatto riguardo all’epilogo del torneo femminile, ma il lentissimo cemento di Melbourne Park ha restituito risultati in totale disaccordo con le digressioni più o meno giornalistiche delle ultime quarantotto ore. Semifinali: Halep contro Muguruza, Barty contro Kenin. Elette a favorite per acclamazione erano Simona ed Ash: la prima era parsa la più in forma delle centoventotto pretendenti; la seconda capeggia da un po’ la graduatoria mondiale e faceva gli onori di casa spinta da una nazione intera.
Avevamo messo le mani avanti chiedendovi di prestare attenzione alle possibili ribellioni, ma non ci saremmo aspettati due atti di insubordinazione clamorosi e contemporanei. Per mettere il carico da novanta, Muguruza e Kenin hanno sovvertito il pronostico senza lasciare alle favoritissime nemmeno un set, sebbene Barty, forse sopraffatta dalla pressione di cui da settimane si parla, di set point ne abbia avuti due nella prima e due nella seconda frazione: basta davvero poco a cambiare le sorti di uno Slam. Le promesse finaliste si sono medicate in qualche modo le ferite: Halep affidandosi alla retorica per interposto Darren Cahill del “tornerò più forte di prima“; Barty consolandosi con la nipotina di mesi tre apparsa nella conferenza post partita, rappresentante costei le “cose che davvero contano nella vita“, ma intanto in finale ci sono andate le altre due, per un ultimo atto che nel mare magnum delle puntate complessive presso gli allibratori tennistici crediamo non abbia raccolto moltissimi consensi.
Sofia Kenin era data in crescita veloce e costante. L’ex bambina prodigio nata a Mosca e traslocata dalla famiglia in Florida via New York alla ricerca del sogno americano evidentemente in fase avanzata di realizzazione, cresciuta alla scuola del guru Rick Macci che l’aveva paragonata a Martina Hingis e preferita a Jennifer Capriati, è esplosa lo scorso anno pare dopo il clamoroso upset, ci venga perdonato l’anglicismo, imposto all’idolo Serena Williams al terzo turno del Roland Garros. “Mi ha dato una fiducia enorme quella partita, ho capito che potevo fare il salto“, ha dichiarato alla stampa Sofia, che all’epoca aveva intanto già sollevato il primo titolo in carriera a Hobart e di lì a poco avrebbe bissato e triplicato con i trionfi a Maiorca e Guangzhou, migliorando a spron battuto il ranking anche grazie a una super-estate sul cemento nordamericano con le semi a Toronto e Cincinnati e alle vittorie back-to-back contro le numero uno Barty e Osaka.
Il suo gioco, figlio tanto di una predisposizione naturale quanto delle deficienze passate, si è affinato in un compendio difficile da gestire per le colleghe di là dal net. Da sempre equipaggiata di un gran rovescio naturale, di una varietà di gioco notevole con predilezione per la smorzata mortifera e soprattutto di una combattività fuori dall’ordinario, doti che le erano state indispensabili nella fase di crescita considerate la scarsa potenza, i pochi chili, la trascurabile altezza, Kenin negli ultimi due inverni ha lavorato sulla conquista del campo e il controllo del gioco. Oggi, sebbene il dritto e la seconda di servizio ballino ancora nei momenti di tensione, Sofia sta cessando progressivamente di temporeggiare, e tende ad aggredire la rivale non appena questa accorcia o si rifugia in un gioco di rimessa. Il risultato, consistente in un grande assortimento di soluzioni in fase difensiva unito al contegno irruento e all’esplosività delle intenzioni non appena passa all’attacco, è un cocktail che proprio a Melbourne ha trovato il bilanciamento perfetto.
Perso solo un set, agli ottavi contro Coco Gauff, proprio una delle stelline connazionali che per vari motivi l’ha a lungo sottratta alle luci della ribalta, Sofia detta Sonya ha per il resto del torneo dormito sonni piuttosto tranquilli fino alla semifinale con Barty, in cui ha dato sfoggio di un’ulteriore qualità difficile da trascurare, ossia la capacità di emergere illesa dai momenti difficili: i quattro set point annullati alla numero uno del mondo rappresentano una discreta prova in questo senso.
CASA SPAGNA – A Garbine la palla viaggia, e il torrido caldo estivo che finalmente e forse esageratamente sta baciando Melbourne in questi ultimi giorni di torneo velocizza di molto le condizioni di gioco. Kenin sulle palle veloci va a nozze, ma Muguruza splende di un’impronosticabile e ritrovata fiducia. Sprofondata in una crisi acutissima esacerbatasi durante un tetro 2019 appena rischiarato dall’unico titolo, giunto dopo l’unica finale, a sua volta guadagnata vincendo la sola semifinale di stagione a Monterrey, e divorziata da Sam Sumyk al termine di una tragica esperienza di lavoro condivisa, l’ex numero uno nata a Caracas è tornata alle sapienti cure di Conchita Martinez, sotto la cui ala aveva conquistato il secondo dei due Slam comunque già in bacheca, a Wimbledon nel 2017. “L’ho trovata parecchio motivata – ha detto recentemente Conchita, peraltro in odore di Hall of Fame -, preparata fisicamente, con una gran voglia di migliorare. Abbiamo lavorato molto bene durante la off season“. I risultati sono sorprendenti ma sotto gli occhi di tutti.
E dire che l’esordio nel torneo, bagel subito da Shelby Rogers con nove punti totali messi a segno nel primo set della manifestazione, lasciava prevedere un’altra tappa fosca nel viaggio da incubo della povera Garbine (da questo tweet apprendiamo che nessun tennista in Era Open, uomo o donna, ha mai vinto uno Slam dopo aver perso 6-0 il primo set del torneo). Invece, dopo un’altra partita bruttarella ma tutto sommato rincuorante vinta con Ajla Tomljanovic nel secondo round, la spagnola è inopinatamente esplosa. La prima ad accorgersi del nuovo corso è stata l’ex maestra Svitolina, la seconda Kiki Bertens: tre giochi raccolti l’ucraina, sei la biondissima olandese. Muguruza due top ten consecutive non le batteva da Cincinnati 2017.
La semifinale con Halep, favorita per questioni tecniche ma anche a causa della nota predilezione della romena nei confronti dei climi torridi, è stata l’ultima conferma di questa subitanea rinascita, forse la più clamorosa dell’intero Open d’Australia 2020. Kenin ha dalla sua l’entusiasmo e ha imboccato a tutta velocità la rampa di lancio, ma Muguruza quando (raramente) arriva in fondo diventa selettiva e pericolosa. In carriera ha vinto appena sette titoli, ma due sono Major, con tre finali Slam sulle undici disputate in totale. Brutta compagnia da portarsi nelle fasi calde, insomma, ma Kenin, l’ex bimba che ad anni sette si riteneva in grado di rispondere al servizio di Andy Roddick, ora suo grande tifoso, di paura ne avrebbe pochina.