Nel saggio “Roger Federer both flesh and not” (inizialmente “Federer as religious experience”), David Foster Wallace riporta la risposta dello svizzero alla domanda su quanto contasse per lui essere un giocatore esteticamente piacente, che era stata, nelle parole di DFW, sintomatica in quanto non era una risposta definitiva ma rimaneva un insight di raro interesse. In sostanza, Federer aveva in qualche modo sminuito il tema della propria grazia ultraterrena (cosa che i suoi sponsor certamente non fanno), affermando che quell’aspetto è sì importante, ma allo stesso tempo è soltanto una prima impressione di chi guarda, e non ha un impatto significativo su come lui affronta la questione, piuttosto rilevante per un atleta, della vittoria e della sconfitta.
Un discorso simile potrebbe essere fatto per il servizio di Novak Djokovic, perennemente sottovalutato dal pubblico per l’apparente aporia davanti a cui ci pone il suo stile gioco: ciò che l’eye test degli osservatori trae dalle partite del serbo sono la flessibilità, la copertura di campo, le risposte fra i piedi dell’avversario, ma in poche parole ciò che si nota è la consistenza di Nole nello sbagliare dal poco all’infinitesimale, nonostante il suo sia tutto tranne che un gioco di rimessa, grazie ai continui anticipi con cui taglia gli angoli e pressa gli avversari, e grazie anche, in misura considerevole, proprio alla battuta – ricordiamo tutti le difficoltà a cui andò incontro per via delle condizioni vegetative del colpo causate dai problemi al gomito del 2017, quando fu costretto a modificare temporaneamente l’esecuzione del colpo per non stressare l’articolazione, perdendo velocità e spazzolata.
Infatti, quando nel 2018 il New York Times ha indetto un sondaggio fra giocatori e addetti ai lavori, sia la prima che la seconda di Djokovic sono risultate fra le migliori del circuito, guadagnandosi un posto appena fuori dalla Top 5 (in entrambe le categorie il quintetto top era Isner-Karlovic-Raonic-Federer-Anderson, in diverso ordine), e i dati sembrano confermarlo: stando al sito dell’ATP, Nole ha l’ottavo miglior ‘serve rating’ dell’ultimo anno di tennis, un dato figlio soprattutto del settimo posto nella percentuale di game vinti e del quinto per punti vinti sulla seconda.
Proprio sulla seconda si è focalizzata Amy Lundy di fivethirtyeight.com, che ha certificato nei numeri come il colpo abbia fatto un ulteriore salto in avanti durante gli Australian Open, rendendolo ancora meno giocabile – e non è che prima… Stando ai rilevamenti Infosys del torneo, il N.2 ATP ha aggiunto circa 10 chilometri orari alla sua seconda palla, attestandosi sui 167 all’ora, un dato non troppo lontano dai 190 della prima di servizio, e soprattutto più alta di quella di giocatori considerati molto più aggressivi con questo fondamentale, come Nick Kyrgios (anche se difficilmente Djokovic proverà mai a spingerla così tanto sul 5-5 del tie-break del terzo…).
L’autrice ha evidenziato maggiormente due dati. Innanzitutto, che all’aumento di velocità non è corrisposto un aumento dei doppi falli – 13 nei primi 6 match, lo stesso dato del 2018. E poi, ancora più significativamente, che non solo Djokovic ha reso più pesante il colpo, ma l’ha shakerato con un approccio tecnico non convenzionale in termini di spin: quasi tutti i giocatori optano per una prima piatta o slice, riservando il kick per le seconde, che hanno il vantaggio di un passaggio molto più alto sulla rete e generano un rimbalzo altrettanto elevato. Djokovic, però, sta servendo con frequenza lo slice sulla seconda, aumentando l’effetto sorpresa contro avversari usi a colpi lavorati ma non troppo rapidi, magari assumendo una posizione più avanzata che non dà il tempo di reagire a una diversamente prima di servizio.
Il tipo di effetto è poi legato a un piazzamento differente rispetto alla doxa delle seconde palle, predicata sulla ricerca del rovescio avversario: il box del servizio viene tradizionalmente diviso in tre fasce, esterna, al corpo, e all’incrocio delle righe, con le seconde generalmente a cercare l’incrocio da destra e soprattutto la linea esterna da sinistra, dove il kick diventa fondamentale per far colpire l’avversario all’altezza della spalla. Nole, ancora una volta, sta facendo il contrario, cercando il dritto avversario senza problemi grazie alla corposità del suo colpo: delle 40 seconde dal deuce court tirate nei primi quattro match, 22 sono state indirizzate verso l’esterno del campo, attaccando il dritto dell’avversario in tre di queste partite – fa ovviamente eccezione il terzo turno con il mancino Nishioka; discorso simile per la seconda da sinistra, con 28 su 45 tirate al centro.
Ma da dove si origina la teoria contro-intuitiva che ha portato a questo cambiamento tattico? Due cose vanno dette. Innanzitutto, al di là di ogni discorso specifico, la velocità della battuta di Djokovic è cresciuta in toto, e una grande prima favorisce rischi sulla seconda: nei primi tre turni, ha messo a segno più del doppio degli ace rispetto allo scorso anno, 47-23; a parità di match, e con meno turni al servizio giocati, ha messo a segno più ace di Federer, 70 a 66, e solo un paio in meno rispetto a Zverev; e nella prima settimana del torneo ha colpito il 61% delle sue seconde sopra ai 170 chilometri orari.
Per un’eziologia più precisa, invece, ci viene il soccorso ancora una volta Craig O’Shannessy, che lo scorso dicembre ha scritto un feature sugli ace di seconda messi a segno dall’attuale Top 10 nei Masters 1000 giocati fra il 2011 e il 2019, mostrando come l’84% di questi sia generato da servizi contro il dritto (47% da sinistra, 37% da destra). E chi guidava questa speciale classifica? Proprio Djokovic, che quindi sta portando nel mainstream del suo gioco uno schema indie che ha sempre avuto – è un po’ il Tommaso Paradiso dei servizi.
Ora però deve arrivare la domanda pragmatica: e la Grecia, e la mitologia, e tagliamo la mela… ma intanto i 15 li porta a casa? La risposta pare essere un inequivocabile sì, perché nei quattro match di cui sopra Djokovic ha vinto il 74% dei punti sulle seconde tirate in queste direzioni, un dato Isneriano se pensiamo che nessuno va sopra il 61% di punti totali vinti con la seconda nel torneo, e che la sua percentuale di punti vinti sulla seconda fino agli ottavi è salita dal 57% al 60% – va ricordato che l’ottavo dello scorso lo vide affrontare un ribattitore come Medvedev, ma quello di quest’anno non gli ha portato più fortuna da questo punto di vista, opponendogli Diego Schwartzman, un altro dei migliori ribattitori del globo.
Obiezione: va sottolineato come negli ultimi match del torneo la frequenza della seconda anomala sia scesa, visti anche gli accoppiamenti con tre avversari dal dritto eccellente quali Raonic, Federer (mutatis mutandis per le sue condizioni, ovviamente) e Thiem, e scesa la frequenza è anche scesa la velocità media del colpo, seppur in maniera non troppo significativa: 158 all’ora con il canadese, 161 con Federer, mentre Thiem merita un discorso a parte.
Nell’atto finale, Djokovic ha servito la seconda a 151 km/h, rimanendo costante in tutti i set ad eccezione del primo, in cui delle percentuali di servizio stratosferiche (80% di prime in campo) gli hanno consentito di spingere oltremodo le sole cinque seconde avute a disposizione, per una media di 166 chilometri orari. È dunque evidente come questa nuova gestalt non sia ancora insita nella psiche tennistica del serbo, ma piuttosto qualcosa da usare quando tutto gira al massimo per infierire sui malcapitati che lo affrontano. In finale Djokovic ha chiaramente voluto mandare un messaggio di dominio territoriale, conscio della fatica e della poca familiarità del Dominator con la tipologia d’incontro, ma è evidentemente poi stato punto dalla caparbietà e sono-Diesel-come-Stan-ti-ricordi-quelle-due–finali dell’austriaco, per nulla intimidito da questo inizio esondante di Nole, costringendolo a tornare a schemi più tradizionali per domarlo di puro acido lattico.
Obiezione all’obiezione, però: il neo-N.1 ATP è forse il giocatore più raziocinante nella storia di questo sport, e quindi la minor frequenza della seconda al dritto non si è tradotta in una sua minor efficacia: 53% con Raonic (in un match in cui ha avuto solo il 48% sulla seconda); 67% con Federer (54% totale); e 57% in finale contro 51. Contro l’austriaco, tre slice da destra sono da sottolineare per indicare l’importanza del colpo: il primissimo punto, la palla break salvata sul 4-4 15-40 del primo set, e una che forse gli ha vinto la partita, sul 4-3 30-30 nel quinto, quando Jacopo Lo Monaco di Eurosport ha commentato lapidario che Thiem dovesse aspettarsi quel colpo, vista la sua efficacia lungo l’arco del torneo e in punti importanti, aspetto discusso anche da Wilander nel pre-partita.
Sembra chiaro, dunque, che quest’arma non sia solo un atout da usare per sorprendere l’avversario, ma piuttosto una bona fide freccia in faretra che verrà usata con continuità, certamente anche grazie all’input di Goran Ivanisevic, che di servizio si intende parecchio. Chissà che ciò non sia parte di un disegno più offensivo, similmente a quanto fatto da Nadal con Moya per ridurre i carichi nel crepuscolo della carriera. Se così fosse, più che di crepuscolo si dovrebbe parlare di Aurora Boreale, che ormai per Nole consiste in un solo grande obiettivo, il Doppio Sorpasso.