Travolgente. Difficile trovare un termine più appropriato per definire la vittoria di Sofia, anche detta Sonya, Kenin a questi Australian Open, la sua prima in uno Slam. La tennista statunitense di origini russe, accreditata della testa di serie n.15 del seeding, ha superato una dopo l’altra tutte le avversarie che si è ritrovata al di là dalla rete. Ha sconfitto la sua connazionale Coco Gauff, della quale tanto e (forse persino troppo) già si parla come di una nuova Serena. Ha eliminato in semifinale la beniamina di casa e n.1 del mondo Ashleigh Barty, provocando un notevole dispiacere al pubblico australiano. Ha infine battuto in finale una rediviva Garbine Muguruza, la quale, vale la pena ricordarlo, in carriera ha vinto Roland Garros e Wimbledon, e avrebbe dovuto saper meglio gestire le emozioni.
E invece non è andata così. O, per meglio dire, Kenin ha saputo incanalare nella maniera giusta tutta la sua emotività, quella che traspare in ogni singolo momento di ogni partita. Quella che lei sfoga continuamente parlando con sé stessa, arrabbiandosi con l’incolpevole papà (e coach) Alex che la segue dagli spalti, gesticolando nel tentativo di mimare il colpo che avrebbe potuto o dovuto fare. Alla fine, Sonya è riuscita venire a capo di questa costante battaglia con sé stessa nei momenti chiave della partita, come quando era sotto 0-40 sul 2 pari del set decisivo. “Sapevo di dovermi dare una calmata. Ero troppo nervosa. Non avevo giocato bene quel game fino a quel momento. Dovevo in qualche maniera rilassarmi e giocare meglio. Ho provato a nascondere le emozioni. Non volevo che prendessero il sopravvento su di me”, ha dichiarato in un’intervista esclusiva alla WTA subito dopo il trionfo. E così è andata. La statunitense ha messo a segno cinque vincenti consecutivi e tenuto un fondamentale turno di servizio. “Ha fatto qualcosa di incredibile”, ha sottolineato papà Alex. “Un commentatore di ESPN mi ha detto che non ha mai visto nemmeno Federer uscire così da una situazione di difficoltà”.
In fondo, questa emotività discende dal suo innato spirito agonistico. Come tutti i grandi campioni, come Federer, Nadal, Djokovic, Serena, semplicemente Sofia non vuole perdere, mai. “Odia perdere. Per lei non è mai stata un’opzione. Lo rifiuta e basta”, ha rivelato suo padre. E lo si vede sul campo da tennis in cui Kenin dà fondo a tutte le sue energie per trovare la maniera di vincere le partite. Riuscendo anche sopperire ad un fisico non esattamente statuario (170 centimetri di altezza), a una potenza di fuoco buona ma non devastante, ad un bagaglio tecnico completo ma non eccellente. La sua voglia di vincere riesce però ampiamente a compensare queste lacune. Una voglia che anche la sua mente e il suo corpo faticano a contenere. “Per tutte le due settimane ho pianto ogni giorno prima dei match. Mi ha aiutato. Non è che lo facessi di proposito. Mi veniva e basta. Più si andava avanti nel torneo e più avevo voglia di vincerlo”, spiega Kenin. “Dicevo a mio padre che doveva aiutarmi. Ovviamente è successo anche prima della finale. Lui cercava di dirmi che era una partita come le altre. Ma non lo era. Sono sicura che era anche lui molto nervoso per me”.
Da questi episodi, si evince il fortissimo legame tra Sofia e papà Alex. Insieme alla moglie emigrò dalla Russia agli Stati Uniti nel 1987 per poi farci temporaneamente ritorno per la nascita della figlia. Alex si rese presto conto delle grandi capacità di coordinazione della piccola Sofia, che preferiva la pallina di feltro a qualsiasi altro passatempo. Le mise ben presto una racchetta in mano e sotto il sole della Florida cominciò ad allenarla per farla diventare una campionessa. Una rappresentazione reale del sogno americano. Una storia già vista anche nel caso ad esempio di Andre Agassi, seppur con risvolti molto più drammatici. Sofia già a nove anni era in grado di rispondere al servizio di Andy Roddick. O quantomeno lei pensava di esserlo come dimostra un divertente video che che già conoscevamo ed è tornato virale alla vigilia della finale. Già si poteva intuire come la piccola non si lasciasse spaventare dalle sfide.
Anno dopo anno, ha continuato a lavorare e crescere, in maniera magari non particolarmente precoce ma inesorabile. Nel 2015, a 17 anni, ha raggiunto la finale degli US Open junior, persa contro l’ungherese Dalma Gelfi. “Era più giovane di me ma era già più forte di me. A livello junior le massacrava tutte”, ha raccontato Naomi Osaka. Alla fine del 2017 era già a ridosso delle top 100. L’anno dopo lo ha concluso dentro le prime 50. Il 2019 è stato l’anno della sua definitiva esplosione: il primo titolo WTA ad Hobart, il secondo a Mallorca, il successo su Serena al Roland Garros, i quarti consecutivi a Toronto e Cincinnati con vittorie su Osaka e Barty. Il premio come tennista più migliorata non poteva essere più meritato di così.
Nonostante questi successi, il suo nome continuava ad essere lontano dai riflettori, anche all’inizio di questo 2020. Le prime pagine erano per Osaka che pur essendo solo un anno più vecchia, arrivava a Melbourne da campionessa in carica, per Andreescu che invece il suo primo Slam lo aveva vinto a New York a soli vent’anni. I loro successi sono serviti da stimolo per Sonya che ha capito che anche lei ce la poteva fare. “Quando ho visto Naomi e Bianca vincere il loro primo Slam ero entusiasta. Erano così giovani e hanno ricevuto così tante attenzioni. Mi ricordo che ho pensato: e se la prossima fossi io? Quanto sarebbe incredibile? Ora sono così contenta di aver vinto questo bellissimo trofeo e che il mio nome sia scritto accanto a quello di tanti campioni. E sarà per sempre là. È incredibile”, ha affermato.
Ora anche lei ha realizzato uno dei sogni più grandi che possa avere una bambina quando comincia ad imparare a giocare a tennis. Uno degli obiettivi per il quali va ad allenarsi per ore e ore ogni giorno. “Vincere un torneo dello Slam è quello che ho sempre voluto. È stato fantastico. Tutto il lavoro che ho fatto ha pagato”, ha commentato. C’è anche spazio per togliersi qualche sassolino dalla scarpa alla fine, ne confronti di chi ad esempio quando si parlava del futuro del tennis statunitense manco la citava, preferendole le teenager Gauff e Anisimova. Due ragazzine di enorme potenziale ma che hanno ancora tutto da dimostrare. “Sì, sono stata sottovalutata. Ma sai una cosa? Ho dimostrato a tutti che si sbagliavano. E questo è straordinario. L’ho fatto per me e per la mia famiglia. Condividere questo successo con loro significa tutto per me”, ha concluso Kenin. E guai a sottovalutarla la prossima volta.