Per annunciare il ritiro ha scelto un’intervista esclusiva a Vanity Fair, in coerenza con la sua carriera e la sua vita da superstar trascendente il mondo dello sport puro. Maria Sharapova lascia il tennis ad appena 32 anni. Non per un moto di stanchezza nei confronti del mestiere che l’accompagna da quando, su un campo della periferia di Sochi, per la prima volta impugnò una racchetta grossa due volte lei ad anni quattro. Lascia perché il suo fisico non reagisce più ai continui acciacchi, e ogni volta le speranze di poter competere assecondando le notevoli aspettative sue e di chi la aspetta al varco erano sempre più basse.
Maria non è interessata a giocare a tennis tanto per giocare a tennis; non può e non vuole passare settimane in giro per il globo sotto antidolorifici per sorbire il brodino di un successo a Tianjin, l’ultimo raccolto nel Tour nell’autunno del 2017. Troppo poco per una ragazza che in carriera ha messo in bacheca trentacinque trofei tra cui cinque titoli del Grande Slam, vincendoli tutti e quattro almeno una volta, che è stata icona planetaria e che ha sempre provato a tornare alzando l’asticella ai soliti livelli nonostante i problemi alla spalla emersi per la prima volta nel 2008 e la mazzata della squalifica per uso di sostanze illecite del 2016.
“Il tennis mi ha mostrato il mondo e ha evidenziato di che pasta fossi fatta. È il modo in cui mi sono messa alla prova e ho misurato la mia crescita. Adesso, qualsiasi cosa sceglierò per il mio prossimo capitolo, la mia prossima montagna da scalare, continuerò a spingere. Continuerò ad arrampicarmi. Continuerò a crescere“. Questo il messaggio autografo affidato alla diffusione di Instagram: il tennis, che è come la vita, ha misurato la sua prospettiva nei confronti del mondo. A differenza di quest’ultima, tuttavia, lascia spazio a ulteriori programmi una volta che la sua parabola si conclude, e Maria ha intenzione di vincere, qualunque cosa si staglierà al suo orizzonte. Di dubbi in proposito ne avevamo pochini.
Più articolata la retrospettiva concessa in esclusiva al Top of the Pops delle riviste che si occupano di moda, costume e società. Dai primi scambi sotto l’occhio paterno al tentativo di agguantare il sogno americano. Dal clamoroso successo a Wimbledon a diciassette anni al Career Grand Slam con tanto di bis al Roland Garros. E poi, la pressione con cui deve convivere una ragazza cui madre natura ha regalato un enorme talento tennistico e un fisico da modella, con i fari dei riflettori sempre puntati addosso e i migliori risultati da portare spesso a casa. I problemi fisici che per più di dieci anni l’hanno tormentata e che adesso le impongono uno stop forse prematuro. Nessun accenno, comprensibilmente, all’antipatica vicenda Meldonium, il modulatore metabolico anti-ischemico utilizzato per curare le patologie cardiache, che la Nostra per dieci anni aveva assunto con l’obiettivo di scongiurare problemi diabetici presenti nello storico clinico della sua famiglia, ma che la WADA aveva da pochi giorni inserito nell’elenco delle sostanze proibite perché in grado di migliorare sensibilmente le prestazioni aerobiche degli atleti.
“Ho iniziato prima di compiere cinque anni, ero così piccola che i miei piedi non toccavano terra quando mi sedevo sulla panchina a bordo campo e usavo una racchetta due taglie più grande del dovuto. Sono andata negli Stati Uniti per la prima volta a sei anni e tutto mi sembrava così enorme e irraggiungibile. Giocavo su campi in cemento sconnessi contro giocatrici sempre più anziane, più alte, più potenti di me, e ho imparato da ogni cosa. Di lì a non molto avrei provato la terra battuta più fangosa e l’erba più curata, liscia e perfetta che si possa calpestare”. I prati di Wimbledon, che per la prima volta le regaleranno, ad appena diciassette anni, gloria e fama planetaria.
“Mai nella mia vita avevo pensato anche solo lontanamente che un giorno avrei vinto tutti i Major. A Church Road ero solo una ragazzina che collezionava ancora francobolli e non ho realizzato ciò che avevo fatto per anni. Meglio così, me la sono goduta molto di più. Allo US Open ho imparato a controllare le emozioni e le pressioni, a evitare le distrazioni, a concentrarmi al massimo qualsiasi cosa accadesse attorno a me. Se non riesci a gestire il glamour, il chiasso e le luci di New York, do svidanya, l’aeroporto è lì a due passi. Con l’Australia non avevo mai avuto nulla a che fare, eppure si è presto rivelato un posto dove sentirsi a casa. Lì stavo bene, ero in totale comfort. E poi Parigi, il Roland Garros che ho vinto addirittura due volte. Non me lo sarei mai aspettato, i primi anni non riuscivo nemmeno a scivolare sulla terra battuta. Ho dovuto imparare a cambiare, a migliorarmi, ad adattarmi alle situazioni. Una grande scuola di vita”.
Un percorso esaltante, interamente percorso sotto le luci della ribalta, che l’ha condotta a diventare la signora di un impero da decine di milioni di dollari. Per undici anni consecutivi, Forbes l’ha posta in cima alla classifica delle atlete più pagate, con oltre trenta milioni di bigliettoni verdi incassati nel solo duemilaquindici. Eppure il capolinea è arrivato anche per la siberiana. Dal ritorno alle competizioni dopo la squalifica, avvenuto a Stoccarda nell’aprile del 2017, è arrivato il solo titolo a Tianjin di cui sopra. Nelle prove del Grande Slam, il miglior risultato coincide invece con i quarti di finale raccolti a Parigi nel 2018, mentre nelle ultime tre uscite sono arrivati altrettanti KO al primo turno, l’ultimo a gennaio a Melbourne contro Donna Vekic, in quella che resterà l’ultima pagina agonistica della sua vita.
“È ora di dire basta. I problemi alla spalla non sono una novità per me. Ho subito la prima operazione nel 2008, e un’altra nel gennaio dello scorso anno. In mezzo, ho fatto tante di quelle terapie e sessioni di riabilitazione da perderne il conto. Ho sempre guardato avanti con grinta per vincere e tornare ai massimi livelli, ma qualcosa è cambiato la scorsa estate. Ero all’Open degli Stati Uniti, negli spogliatoi. Venivo da un periodo pieno di problemi fisici, l’ennesimo, e prima del mio esordio mi sono detta che già il fatto di scendere in campo era un successo. Non avevo mai ragionato in quel modo: ciò che io ritenevo una vittoria era semplicemente la condizione base per competere. Il mio corpo stava diventando una distrazione e lì ho pensato che sarebbe stato inutile accanirsi”.
Il futuro è ancora incerto, com’è più che giusto sia: adesso c’è un corpo da coccolare e una normalissima quotidianità da assaporare forse per la prima volta. “Mi mancherà il mio team, il clima della partita, persino le sfiancanti sessioni all’alba. Mi mancherà ciò che è stato il mio mondo per ventotto anni, ma qualsiasi cosa farò, la farò al massimo, mettendoci lo stesso impegno”.
Per molti l’addio di Masha non sarà una sorpresa così incredibile, valutatone il decorso fisico e sportivo degli ultimi diciotto mesi. Per molti altri invece lo sarà, anche alla luce del rapporto recentemente instaurato con Riccardo Piatti, che l’aveva ospitata nella sacra accademia di Bordighera in vista di un presumibile tentativo di ritorno in grande stile.
Ci lascia, Masha, e il vuoto che ne conseguirà non sarà facile da colmare, piaccia o no. Per appeal, classe, grinta e carisma solo Serena Williams negli ultimi vent’anni ha potuto competere con la campionessa nata a Njagan’ il 19 aprile del 1987. “Non mi sono mai ispirata a nessuna nemmeno quando ero ragazzina. Non ho mai voluto essere come un’altra giocatrice, perché non ho mai pensato ci fosse qualcuna brava al punto da voler essere come lei”. Nel bene e nel male, Maria Sharapova è stata davvero unica.