Clerici G. (con Naldi M.), Il tennis nell’arte, Mondadori, 2018
Se mi telefonasse il presidente della svizzera e mi proponesse uno scambio alla pari “vi diamo Federer e ci prendiamo Clerici” rifiuterei secco. Se sul fronte del tennis giocato la questione GOAT è ancora (forse) aperta, su quello raccontato no. Clerici ha avuto l’incredibile privilegio di spalancare le porte del passato remoto a uno sport irreversibilmente proiettato nel futuro e dalla memoria paradossalmente ogni giorno più corta. E poi, direi al presidente, il cantore è sempre superiore al guerriero e alla battaglia. Senza Omero non sapremmo nulla di Achille ed Ettore.
Senza Clerici poco sapremmo della Divina Lenglen e nulla ma proprio nulla sulla questione che nello splendido dipinto “Re Davide consegna la lettera a Uria” (Lucas Gassel, tra il 1500 e il 1530), accanto alla rappresentazione evocata dal titolo, viene raffigurato l’antenato di un campo e di una partita di tennis. Stesso scenario presente nel capolavoro di Giambattista Tiepolo (“La Morte di Giacinto”, 1752-53) dove accanto al corpo morente di Giacinto compare in bella vista una racchetta con “le corde perfettamente tese, il manico di legno fasciato da un telo azzurro e bianco”.
Per il mondo del tennis una specie di elettrochoc retroattivo che riscrive la vulgata contemporanea sulla datazione centenaria e anglosassone delle origini del tennis. Per Clerici il big bang della lunga ricerca che ha portato il nostro scriba alla realizzazione di “500 anni di Tennis”, il suo libro più famoso e temo la sua prigione dal punto di vista squisitamente letterario. Perché Clerici non andrebbe schiacciato solo sul cosa scrive ma bisognerebbe aprire una riflessione sul come lo scrive. Oltre ad aver alzato su Repubblica la cronaca tennistica a piccolo genere letterario, i suoi libri sono caratterizzati da una prosa delicata e sorprendentemente sintetica in grado di catturare in poche righe i luoghi e le persone incontrate sempre strette tra destino e fatalismo.
Una prosa che definirei acquarellistica dove italiano e dialetto non vanno mai in conflitto ma si nutrono a vicenda. Leggendo Clerici ho sempre la sensazione che pensi in dialetto (credo che la sintesi e il ritmo vengano da là), scriva in italiano e si rivolga a un orizzonte che per semplificazione direi anglosassone. Insomma un curiosissimo e non replicabile caso di provincialismo cosmopolita d’alta classe nutrito di gratitudine, grazia e spaesamento. Libri facilissimi da leggere e impossibili da collocare.
Non fa eccezione l’ultimo libro di Clerici “Il Tennis nell’arte”, un viaggio, credo mai tentato da nessuno, che riunisce in un unico volume i più importanti quadri (e sculture) a tema tennistico. Ogni capitolo un quadro. Ogni quadro un aneddoto. Ogni aneddoto una storia. Ogni storia un acquarello in prosa che racconta l’incontro tra il quadro e lo scriba. Se “500 anni di tennis” è una bibbia laica, “Il Tennis nell’arte” è il suo bignami visivo, la sua bussola segreta. Un museo cartaceo cucito insieme da passione e una grande intuizione che fa di Clerici il curatore virtuale di una mostra mai vista e che non si vedrà mai se non nel libro in questione.
Ne “Il tennis nell’arte” ci si può confrontare, anche grazie ad un’edizione curatissima con l’aggiunta delle preziose schede critiche di Milena Nardi, con l’incredibile potenza dell’arte in grado di incorporare dentro una cornice una miniera di informazioni e implicazioni in cui chi guarda, come ci ha spiegato Umberto Eco, non è certo la sua componente passiva. E così accanto alle prove di quanto il tennis, ma direi il gioco come componente fondamentale dell’essere umano per dirla alla Caillois, abbia attraversato sottotraccia la Storia europea – Caravaggio fu coinvolto in un omicidio a causa di screzi per un “giuoco di racchetta”, Carlo IX (Re di Francia) fu immortalato da bimbo con una racchetta in mano e addirittura la rivoluzione francese nacque dentro lo stadio della pallacorda – troviamo il contrappunto microstorico e aneddotico costituito dagli incontri tra lo scriba e quelle opere, alcune confluite in un acquisto e tutte restituite al lettore attraverso uno sguardo estremamente colto ma mai e poi mai accademico.
Credo che sia questo il valore aggiunto del libro e forse la sintesi dell’asimmetrico successo di Clerici. In un paese mai veramente uscito dai recinti del medioevo è quasi intollerabile accettare un dottor divago, amateur nell’animo, che entra come un bisturi in campi pensati e difesi da specialisti. Chiudere la carriera bibliografica di Clerici (24 libri) dentro la categoria “quello del tennis” è decisamente riduttivo. “Gesti Bianchi” (prossimamente) è un romanzo tout court che per atmosfere e passo dovrebbe stare accanto al grande Gatsby, “500 anni di Tennis” e “Divina” sono veri saggi di storia impreziositi dal posizionamento dell’autore, “Erba rossa” è un diario di viaggio trasformatosi in un acutissimo documento narrativo sulla transazione postcomunista dell’Est Europa e per restare a “Il tennis nell’arte” ci troviamo davanti a un bellissimo libro d’arte spogliato da quella tombale autoreferenzialità accademica che trasforma una cosa meravigliosa in un dialogo tra iniziati.
Insomma “Il tennis nell’arte” è un formidabile saggio d’arte che invece di spiegartela ti porta a spasso nel suo incanto e, va da sé, in quello del tennis, “il Re dei giochi e il gioco dei Re”.
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