Si ride e si scherza ma il tempo che Robin Soderling ha già passato lontano dal circuito professionistico avvicina pericolosamente i dieci anni. Concluse a casa, a Bastad, peraltro sollevando un trofeo anche se il dato potrebbe sembrare secondario, e in effetti lo è. Quando si pensa all’ultimo grande giocatore prodotto dalla storica scuola svedese, la cui crisi è stata forse infine resa reversibile dai discreti risultati prodotti nell’ultimo anno dai fratelli Ymer, si tende un po’ a dimenticare che quando Soderling ha appeso la racchetta al chiodo le sue primavere erano solo ventisette.
Ospite di turno nel salotto di Noah Rubin, l’ex numero quattro delle classifiche mondiali conferma la percezione distorta della vita che la prolungata frequentazione del palcoscenico può provocare nei campioni e in coloro che li ammirano. “Tutto è vago, tutto sembra enorme,” ha voluto sottolineare il povero Robin sul taccuino digitale di Behind the Racquet, “gli atleti famosi incarnano ciclicamente l’emblema degli esseri immortali destinati a giocare per sempre, invece dura poco. Ho smesso da quasi dieci anni e sembra passata una vita. Ma fa ancora più impressione il fatto che ho mollato tutto a ventisette anni: per l’agonismo non sei lontanissimo dall’imboccare la via del tramonto, ma per la vita reale sei un ragazzino obbligato a pensare al futuro senza tennis, ed è giusto che sia così“.
Il suo percorso si è interrotto sul più bello, come si dice, ma aveva iniziato a essere accidentato molto prima che il ragazzo si decidesse ad alzare bandiera bianca. “Ho cominciato ad avere i primi problemi nel 2009. Giocavo, mi allenavo e facevo una fatica tremenda a recuperare. Mi sentivo stanco, spossato e anche spaesato, perché non mi era mai capitato prima“. Fu a quel punto che iniziò il tour dei medici e delle cliniche specializzate. “Ho fatto centinaia di esami che restituivano immancabilmente esiti rassicuranti, i medici dicevano che era tutto a posto ma nell’intimo sapevo che qualcosa non andava. Alla fine la verità venne a galla: il mio sistema immunitario non funzionava a dovere e questo grave problema, unito al sovrallenamento al quale mi sottoponevo per tentare di uscire dal tunnel, ha sconfitto ogni resistenza del mio corpo. Quando ho scoperto di avere la mononucleosi tutto è andato definitivamente a rotoli“.
Non che Robin non le abbia provate tutte, per trovare una quadra con il suo organismo in ribellione. “Staccavo per qualche giorno e mi sentivo meglio, provavo allora ad allenarmi a fondo e tornavo uno straccio. Dopo l’ultimo torneo a Bastad, e almeno tre tentativi di tornare al top andati a vuoto, mi sono detto che non aveva senso continuare“. A volte le porte della vita, per soggetti che non hanno conosciuto altro che l’agonismo, iniziano a girare proprio in questi momenti. “Non subito, però,” ha tenuto a specificare Soderling, “perché le sensazioni sono state alquanto strane. Per i primi sei mesi dopo il ritiro del tennis non mi è interessato nulla, anzi ero sollevato. Solo dopo, quando guardavo dal divano giocare avversari che pochissimo tempo prima sfidavo e battevo, sono tornato a provare il desiderio di tornare in campo“.
Il treno, tuttavia, aveva lasciato la stazione da un po’: “Ho impiegato cinque anni a liberarmi di ogni sintomo connesso alla mononucleosi, e a quel punto era tardi per tornare a giocare seriamente. Mi sono guardato allo specchio e mi sono detto che ero stato uno stupido, che avevo pensato troppo al tennis, che non ero mai stato capace di staccare la spina tra un torneo e l’altro. Che avrei dovuto studiare qualcosa passati i vent’anni, perché la carriera dura molto meno di quanto ci si aspetti e occorre avere altre competenze, altre conoscenze, una cultura più vasta. Anche perché distogliere l’attenzione dal lavoro, nel tennis come in ogni altro campo, aiuta a sentire meno la pressione“.
Consuntivi a parte, comunque sintomatici di un essere pensante di un certo spessore, occorre dire che fintanto che è durata, la carriera di Robin ha toccato livelli piuttosto alti. In un particolare frangente, siamo costretti a dire, quello che tutti conoscono e nessuno perde occasione di ricordargli: “La vittoria contro Nadal a Parigi nel 2009 resta un grande risultato, il più famoso. Ci ho messo diverso tempo a realizzare, a mettere le cose nella giusta prospettiva. Dopo la stretta di mano mi sembrava di aver vinto la finale, considerato l’incredibile caos generato da quel match, invece erano solo ottavi. È stato difficile tenere i piedi per terra: quando sono tornato negli spogliatoi ho trovato circa trecentocinquanta messaggi sul telefono, ma mi sono dovuto imporre una certa calma. Non volevo essere ricordato come il tizio che ha battuto per la prima volta Nadal al Roland Garros e ha perso la partita successiva“.
Come si diceva, molto sta nell’osservare i fatti dalla giusta angolazione. “In tantissimi si sono complimentati per quell’incontro, in parecchi lo fanno ancora oggi. Ma il clamore seguito a quella vittoria è solo merito di Nadal: non nascerà mai più un tennista capace di vincere per dodici volte lo stesso torneo dello Slam“.