Adrian Fognatta, forse persino più cacofonico di Fabio Panini, nella fusione anche nominale tra i due giocatori italiani più forti dell’era Open, si manifesta in tutta la sua inattesa lucentezza durante la quarta settimana della primavera duemiladiciannove al Country Club di Montecarlo, significativa sede del primo trionfo di Fabio Fognini in un “Mille”, di cui oggi ricorre l’anniversario. La vittoria sinora più prestigiosa della sua carriera, la prima di un italiano sulla terra monegasca in Era Open.
Come ebbe a scrivere all’epoca dei fatti il nostro direttore nel suo commento all’impresa, le analogie, quelle caratteriali ma soprattutto quelle contingenti, tra l’Adriano del 1976 e il Fabio del 2019, sono talmente evidenti da rendere irresistibile il paragone tra quanto successo al Foro Italico quarantaquattro anni fa e le vicende osservate in Cote il giorno del penultimo anniversario della Resurrezione di Cristo, e per cautela eviteremo almeno in questa sede insidiose riflessioni sui possibili intrecci metaforici legati alla Pasqua. Fatto sta che, proprio come Panatta nell’anno santo di cui abbiamo parlato, anche Fognini nel Principato rischia di rifare il borsone molto prima di sbaciucchiare la coppa nel weekend.
Nella Roma degli anni di piombo, bello, ambito da fotografi e ragazze e scostante come si conviene, Panatta nel primo turno riemerge da un profondissimo baratro in cui l’ha cacciato l’australiano Kim Warwick, portando a casa una vittoria che i testimoni oculari ancora oggi definiscono “abbondantemente oltre i confini della realtà”: Adriano rimonta dall’uno a cinque nel set decisivo, annullando undici match point di cui dieci in risposta e stabilisce un nuovo record, destinato a sopravvivere a molti tentativi di imitazione, relativo all’ineguagliato numero di palle match schivate prima di portare a casa un incontro. Anche Fognini esordisce affrontando un’impervia scalata ma contro un russo, Andrey Rublev, pazzerello com’è descritto nei libri di storia Warwick ma dal pedigree non male e comunque in procinto di inaugurare una nuova, interessante fase della carriera dopo una lunga parentesi gravata da fastidiosi infortuni. Qui il cinque a uno non si materializza per un pelo e per il pizzico di follia, ci si perdoni il temerario eufemismo, grazie alla quale Fabio annulla una delle cinque palle break che avrebbero mandato il russo a servire per il match: tirando un ace di seconda.
Come l’Adriano d’epoca, il volto di Fabio si rasserena con l’andare delle partite, e la famosa dea bendata, così poco incline a manifestarsi durante i momenti di maggior necessità, soprattutto se questi sono legati a traversie tennistiche dipinte d’azzurro, gli regala un giorno di riposo extra con il ritiro di Gillou Simon, indisponibile ad allacciarsi le scarpe e scendere in campo causa infortunio. Insomma è inutile, anche se ovviamente piacevole, ricordare che alla fine dei conti Adriano a Roma 1976 vinse, e vinse anche a Parigi, per un’accoppiata da pazzi forse persino paragonabile, per prestigio sportivo associato alla nazione-Italia, alla doppietta Giro-Tour segnata da Marco Pantani, il fossile, come amava chiamarlo il compianto Gianni Mura, nel 1998.
Per Fognini, che non ha vinto né Roma né Parigi ma spera di provvedere in futuro, la rumba monegasca comincia negli ottavi di finale, anche se per coerenza geografica sarebbe forse più opportuno parlare di “gira”, ballo tradizionale appartenente al gruppo delle danze delle quattro province, diffuso sull’Appennino ligure ma che con ragionevolezza si ritiene espanso negli anni anche alle zone costiere di ponente. Ad attenderlo c’è Sascha Zverev, una brutta bestia che nei due precedenti l’ha severamente sconfitto.
In un’atmosfera che dovremmo definire da stadio, e in effetti la vicinanza all’Italia generalmente trasporta oltreconfine anche una certa qual propensione al tifo contrario, Fabio spacca il cappello e mette in mostra l’argenteria di casa. Della partita giocata dal ragazzone nato ad Amburgo le agenzie annotano giusto gli sconfortati movimenti del capo, il famoso linguaggio del corpo, per sfoderare una micidiale quanto classica violenza inferta all’idioma di Dante dai cultori della materia. Il vento gli dà fastidio, il servizio gli volta le spalle, gli errori sono tanti e marchiani e Fabio sta giocando bene. Non può che finire travolto e con la terra rossa negli occhi, ma con l’opportunità di rifarsi un mesetto dopo a Parigi.
Di tempo per pensare al Rolando e ai tornei successivi ce ne sarà, poiché nell’immediato i pensieri vanno indirizzati a Borna Coric, il rivale per un posto in semifinale. Fognini nel primo set manda in campo il suo omologo più intrattabile: accigliato, infastidito da fantasmi di originale conio e indispettito dai molti avversari che in certi momenti affollano la sua mente, Fabio si pone nella condizione di dover rimontare, ma una volta che il suo unico pensiero, rimasto orfano di accessorie suggestioni private, diventa l’allievo sedotto e poi abbandonato da Riccardo Piatti appostato dall’altra parte della rete, la partita fila via liscia per la delizia del pubblico di casa.
E più casa di così non potrebbe davvero essere: distante appena quarantanove chilometri dalla dimora di Arma di Taggia, il Country regala al Fogna sensazioni molto più domestiche di quelle che sanno offrire gli Internazionali, peraltro ultimamente oggetto delle frecciate del Nostro che mal ne digerisce una gestione a suo dire discutibile. Ma ovviamente non è ancora tempo di sedersi a contemplare la reggia, perché l’imminenza, e probabilmente anche l’immanenza stessa della pallina di feltro, sta per materializzarsi nella nota figura di Rafa Nadal, acciaccato da molti problemi fisici specie al ginocchio ma non per questo sfavorito – il più forte terraiolo della storia sul laterizio non lo è mai – e forse proprio perché ferito molto pericoloso.
In ogni caso inviso agli allibratori, per la sua tendenza a disattendere pronostici di ogni sorta, lo scintillante Fabio degli ultimi turni è comunque reduce da un inizio di stagione piuttosto tetro, con quattro sconfitte in quattro partite disputate sul rosso prima della trasvolata monegasca. Certo è che nel tennis, come in molti altri sport, si tende a partire da zero a zero, e nel caso di Fognini conta molto l’ispirazione del momento: se la nebbia di cattivi pensieri si dirada, egli può battere anche Rafacito, come peraltro è già accaduto altre tre volte. Nadal l’ha sempre saputo, proprio come Bjorn Borg sapeva che nessuna impresa era preclusa ad Adriano nelle giornate di grazia.
E nel giorno del quindicesimo Fognal il ribelle di Arma di Taggia non è trattabile per nessuno, nemmeno per Rafa: vincenti da ogni posizione, il balearico tramortito e obbligato al miracoloso colpo di coda per evitare l’onta del bagel nel secondo set. Non era al massimo delle sue possibilità, confermerà Rafa pur senza accampare scuse, e del resto “se non stava bene non è un problema mio”, Fabio Fognini dixit.
Dopo i tre vittoriosi precedenti contro la leggenda di Manacor, Fabio è sempre incappato in una sintomatica giornata nera e in una conseguente sconfitta, dunque la finalissima di fronte a Dusan Lajovic presenta tutte le insidie del caso e persino qualche rompicapo extra, non essendo il curriculum tennistico del serbo, che pur aveva battuto Medvedev, di quelli in grado di fornire in automatico il necessario fabbisogno di adrenalina. Ma i giustificati timori, per fortuna del parzialissimo pubblico convenuto a Roquebrune-Cap-Martin, non hanno modo di trasformarsi in concrete paure all’atto pratico, considerata la partita condotta in porto senza rischiare più del dovuto nonostante i molti errori condivisi dovuti alla notevole tensione oltreché all’onnipresente vento.
E così, sulla soglia delle trentadue candeline, cinquantuno anni dopo il terzo trionfo pre-era open di Nicola Pietrangeli, Fabio Fognini conquista ciò che in molti avevano letto nel suo destino, e altrettanti avevano predetto gli sarebbe stato precluso data la pervicace opposizione di un avversario troppo sofisticato per essere battuto: la sua propria testa.
È una delle singolari e incomunicabili caratteristiche di Fognini, forse la più rilevante: il saper indirizzare a proprio favore qualsiasi partita, in qualsiasi congiuntura, a dispetto di qualunque previsione. E contemporaneamente il saper senza rimedio cedere a qualunque rivale quando tutti lo pronosticano vincitore, pronti a somministrargli il Krug già tenuto in fresco. Ma in fondo poco importa: alcune gemme sono destinate a brillare per quanto solitarie, e negli archivi della memoria una vittoria come quella di Montecarlo impegna molti più faldoni di cento sconfitte impreviste da chi deve per forza vestire i panni dell’ indovino.