A quattro anni esatti dalla sua prima apparizione, il 23 agosto 1977 il ranking ATP ha un nuovo leader, il quarto in assoluto: Bjorn Borg. Lo svedese, campione per la seconda volta consecutiva a Wimbledon, è diventato tale senza dover scendere in campo in quanto il sistema di conteggio dei punti ha fatto sì che Connors, incapace di difendere adeguatamente le vittorie ottenute l’anno precedente a Washington, North Conway e Indianapolis, sia scivolato – sia pur di poco – alle spalle del rivale. In realtà, anche a distanza di tanto tempo, la situazione non è del tutto chiara; Borg, infatti, verrà considerato leader per una sola settimana e quindi, nel momento in cui a Forest Hills prendono il via gli US Open dovrebbe essere di nuovo alle spalle di Connors mentre l’ATP tuttora lo considera n.1 durante lo svolgimento dello Slam statunitense.
Di per sé il fatto ha un rilievo relativo, anche perché lo svedese si procura un infortunio al pettorale destro e nel match di ottavi di finale contro Dick Stockton sarà costretto al ritiro all’inizio del terzo set, ma evidenzia come il sistema avesse ancora bisogno di essere perfezionato. A complicare ulteriormente la già confusa situazione sarà poi la conquista del titolo da parte di Guillermo Vilas. Già campione al Roland Garros ai primi di giugno, sulla terra l’argentino dimostra di non avere rivali e arriva a New York con una dote di 35 vittorie consecutive sulla superficie in oggetto, che diventano 42 il giorno della finale in cui il pubblico è tutto per lui nonostante stia giocando contro un americano. Jimbo sa già che, comunque vada, tornerà in vetta al ranking ma in quel momento l’unica cosa che conta è giocare e vincere in un’atmosfera del genere.
Sia lui che Vilas sono arrivati lì senza perdere set ma il giorno prima Connors ne ha fatta una delle sue, rischiando la squalifica: è andato nella metà campo di Barazzutti, il suo avversario di semifinale, per cancellare il segno di una palla dubbia contestata dall’italiano. Il giudice di sedia, Jack Stahr, lo riprende pubblicamente dicendogli che quello che ha fatto non è divertente e che non aveva il diritto di farlo ma, anziché squalificarlo, conferma la chiamata e il match prosegue tra le proteste del pubblico e l’incredulità di Barazzutti. Forse anche per questo – nonché per la sua fama di antipatico – in finale, l’ultima finale di sempre in quel glorioso stadio, buona parte del pubblico vuole vederlo perdere.
Vilas è contratto ma dal secondo set in poi torna quello imbattibile e chiude in quattro set con un 6-0 conclusivo; la pallina dell’ultimo punto non ha ancora rimbalzato due volte che il centrale viene inondato dagli spettatori, alcuni dei quali si issano sulle spalle l’argentino come fosse Carlos Monzon o Pelè. Invece è un tennista, che chiuderà la stagione con altre 37 vittorie sulla terra e si arrenderà solo a una diavoleria, la famigerata racchetta-spaghetti con cui Ilie Nastase lo costringerà al ritiro nella finale di Aix-en-Provence. Siamo rimasti a lungo su Vilas in quanto, trattando la storia dei numeri 1, l’argentino ha più volte rivendicato (forse non del tutto a torto) il diritto a far parte di questa lista, sia per i risultati ottenuti in quel 1977 e sia, come dimostrò il giornalista Eduardo Puppo raccogliendo oltre mille fogli di dati, per alcune settimane tra il 1975 e il 1976. Ma, pur riconoscendo le falle del sistema, l’ATP non ha mai ammesso le lacune e ufficialmente il best-ranking di Vilas resta il n.2.
Quindi, la più equilibrata fra le ultime stagioni del circuito rimanda il verdetto – ma solo virtualmente – al Masters del Madison Square Garden. Il triangolo dei pretendenti al trono è scaleno perché Vilas batte Connors nel girone, poi perde con Borg in semifinale che a sua volta esce sconfitto da Jimbo in una finale in cui si aggiudica un gioco in più del rivale e che termina 6-4/1-6/6-4 per l’americano. In realtà, come di consuetudine, il torneo dei maestri chiude un’annata ma, disputandosi in gennaio, inizia di fatto quella successiva. Siamo nel 1978, gli Australian Open sono diventati anche in senso temporale l’ultimo major e sperano che qualcuno faccia suoi i primi tre appuntamenti perché in tal caso Melbourne diventerebbe il teatro per la possibile rincorsa al Grand Slam. Progetto ambizioso, quello australiano, ma non così astruso; succederà infatti per ben due stagioni su tre che un giocatore, Bjorn Borg, si troverà a una sola vittoria dal completare i ¾ del leggendario percorso ma verrà sempre respinto.
La prima volta accade subito. Lo svedese domina a Parigi (è la volta in cui Barazzutti, sconfitto in semifinale 6-0/6-1/6-0, al momento di stringergli la mano gli dirà ironicamente “peccato per quel game che hai perso”) mentre a Wimbledon trema solo al primo turno, spaventato dalla pioggia che rende ancora più insidiosa l’erba e dal gigante americano Victor Amaya. Mancino di oltre due metri, l’ormai ventiquattrenne di Denver si trova a un passo dall’impresa quando, in vantaggio due set a uno, ha la palla del doppio break nel quarto set: 3-1 e 30-40. “Se avesse vinto quel punto, avrebbe vinto la partita” ammetterà onestamente Borg alla fine della sfida. Ma la seconda dello scandinavo è profonda e con sufficiente effetto da scongiurare il pericolo e, come disse lo stesso Amaya, “fece girare il match”.
Con un best-ranking da top-20 sia in singolare che in doppio, Victor comporrà con il connazionale Hank Pfister una coppia di ottimo livello (vittoria al Roland Garros nel 1980, finale agli US Open nel 1982) e chiuderà la carriera da singolarista con un record curioso: 3 titoli conquistati battendo in finale sempre vincitori Slam, passati o futuri, come Teacher, Edmondson e Lendl.