La carriera tennistica di Sabatini è stata un capolavoro, con grandi picchi di ispirazione e anche qualche ostacolo sul finale. Si potrebbe aprire il baule dei ricordi e scegliere a caso: nel 1985, a soli 15 anni, è stata la semifinalista più giovane della storia del Roland Garros, sconfitta da Chris Evert, allora n. 2 della Wta.
Sì, mi ricordo: è incredibile, se ci penso adesso, stare sul centrale del Roland Garros a 15 anni. In quel momento, credo, non capivo nemmeno dove fossi, contro chi stessi giocando. Anche se in un certo senso lo sapevo, perché Chris Evert, quando cominciai a prendere in mano la racchetta, era già molto in alto. Però trovarsi a giocare contro di lei, a quell’età, è qualcosa di cui non ti rendi bene conto, non ci pensi. Mi divertivo a stare lì, a poter giocare una semifinale, in un torneo come il Roland Garros, in una città come Parigi. Non hai del tutto consapevolezza di quei momenti, poi a volte guardo le foto e dico: “Wow, che piccola che ero!”.
Lo spirito olimpico di Seul 1988, quando hai conquistato la medaglia d’argento ti ha segnata? In realtà continui a essere un punto di riferimento per gli sportivi argentini.
Sì, è stata un’esperienza unica, perché i tennisti, ad eccezione della Fed Cup, non hanno l’opportunità di rappresentare il proprio Paese. Allora il torneo olimpico non dava punti WTA, però era così importante e gratificante indossare i colori dell’Argentina e condividere quell’esperienza con gli altri atleti: stai nello stesso edificio, li incontri in continuazione, era come una famiglia, andavamo a mangiare tutti insieme. Mi dava tantissima energia. Ricordo che mi svegliavo al mattino e tutti si stavano allenando, preparandosi per le loro gare, e anche a me veniva voglia di allenarmi. Tornai da lì carica come non ero mai stata. Ai Giochi olimpici respiri davvero lo sport e capisci il valore dello sforzo che fanno molti atleti, perché la maggior parte di loro sono dilettanti e si preparano solo per quel momento, che alla fine dura due minuti o una giornata. Da allora in poi mi piace mantenere contatti con gli altri sportivi, incitarli, accompagnarli. È molto bello e mi dà grande soddisfazione.
È impossibile non parlare di New York e Roma, due luoghi in cui ti caricavi di energia e dove hai ottenuto i tuoi migliori risultati (Us Open 1990, due Master al Madison Square Garden e quattro titoli nella capitale italiana).
Sì, credo che influisse molto sul mio gioco, sul mio stato d’animo. E ovviamente New York e Roma erano posti in cui fuori dal campo da tennis stavo bene. Vabbè, in Italia, a Roma, mi sento come a casa perché hanno le nostre stesse abitudini. E poi parliamo del pubblico, perché in entrambe le città il pubblico era molto caldo, molto espressivo, si lasciavano coinvolgere dalla partita e questo mi infondeva più energia ed entusiasmo.
A Roma venivano a vederti anche i tuoi familiari, no?
Sì, tuttora ho alcuni parenti da parte di mio padre, che venivano a posta per il torneo, visto che vivono sull’Adriatico, nelle Marche. Quando arrivava il torneo, venivano anche loro, così avevamo modo di vederci ed era bello anche stare con loro. Sono andata anche al paese dei miei antenati, dopo che ho lasciato il tennis, ho il passaporto, mi hanno offerto le chiavi della città, è stato bellissimo conoscere la casa dove viveva la nonna di mio padre.
Ami viaggiare. Ti è capitato di andare in posti dove non pensavi di essere conosciuta?
Mi è successo quando avevo già smesso di giocare e andavo a promuovere il mio profumo, come a Varsavia, in Polonia. C’era una coda lunghissima per avere il mio autografo. Mi è successo soprattutto in posti dove non ero mai andata a giocare e mi conoscevano più per i profumi che per il tennis: è stato molto curioso e sorprendente.
Gaby, ti guardi allo specchio il 16 maggio, guardi un po’ più in profondità, ripercorri la tua vita per fotogrammi. Che cosa vedi? Che cosa ti piace? E che cosa no?
Sento di essere una privilegiata della vita, ho fatto tutte le cose che ho desiderato fare, continuo a farle e avere questa opportunità è già tanto. L’importante è stare bene con sé stessi. Cerco di condurre una vita sana, sono felice di stare dove sono, di aver vissuto quello che ho vissuto. Ovviamente, ti dici anche: “Beh, certe cose potevano essere un po’diverse”.
In che senso?
Forse in campo professionale, forse in campo personale. Però sento di aver preso le decisioni che mi sembravano giuste in quel momento, per cui mi sono sentita e mi sento bene. Non ho nessun rimpianto: mi sono presa sempre tutto il tempo necessario per decidere. Mi sento bene con quello che sono e con quello che ho e mi sento grata per tutto.
Hai perduto alcune persone care. Che rapporto hai con la morte?
È dura affrontare queste situazioni, l’ho vissuto con mio padre (Osvaldo, morto a marzo 2016): il peggio che possa succedere è vedere una persona cara che soffre. Però, parlando della morte è parte della vita, è la nostra continuazione, anche se non è così facile da accettare. Per esempio perché una persona non c’è più? O perché ci sono alcune morti così ingiuste? È difficile da elaborare psicologicamente.
Nella tua carriera hai ricevuto aiuto dagli psicologi?
Sono stata in terapia per molti anni, al di là del tennis (in Argentina, andare in analisi è come andare dall’oculista per noi, almeno era così negli anni Ottanta. Ndt). D’altro canto ho lavorato anche con uno psicologo dello sport, quando ho ritenuto di averne bisogno. Mi ha aiutato moltissimo, sia in un momento specifico della mia carriera sia alla fine, quando non riuscivo a elaborare quello che mi succedeva in campo, quando non mi divertivo, non sopportavo gli allenamenti. Per questo sono tornata dallo psicologo e mi ha aiutato a capire che era il momento di dire basta.
Chi ti conosce bene dice che da moltissimo tempo il tennis non ti faceva sorridere come al Madison Square Garden, quando hai giocato un’esibizione con Monica Seles nel 2015. Hai quella foto come profilo in rete. Dopo anni senza gioia, è li che ti sei riconciliata con il tennis?
Sì, sì, mi avevano proposto di giocare al Madison l’anno precedente, ma non ero preparata, non gioco molto, magari una volta ogni tanto, ma in quel momento erano passati tre o quattro anni senza giocare e avevo rifiutato; però l’idea mi frullava in testa, più che altro per tornare a New York, al Madison. Quando me l’hanno chiesto di nuovo, ci ho pensato su e ho detto: “Ok, mi impegno a farlo, comincio ad allenarmi”.
Mi sono allenata per quattro mesi prima della partita. Sì, ero rimasta con la sensazione di non divertirmi tanto con il tennis e in quei mesi sono tornata a divertirmi come quando ero piccola. Addirittura, negli ultimi tempi da professionista il servizio era una sofferenza e invece lì mi sono sentita così bene a tirare forte, così a mio agio! Perché ho cercato di prendere tutto alla leggera. Prendo sempre tutto troppo sul serio. Ho pensato: “Se un giorno non ho voglia di allenarmi, non lo faccio”. Non mi allenavo tutti i giorni, uno ogni due. Intendo il tennis, perché l’allenamento fisico non l’ho mai trascurato e questo è stato un bel vantaggio, altrimenti sarebbe stata molto più dura. Quando mi sono trovata al Madison Square Garden era cambiato un bel po’, sembrava un posto diverso, ma mi sono divertita un sacco.
Che diresti oggi alla Sabatini tennista?
(Sorride) Non ho niente da dirle, se non che mi sento molto orgogliosa di quella persona, di tutto quello che ha lasciato, di quello che ha consegnato al tennis.
E magari le diresti di prendersi alcuni momento del gioco con più tranquillità?
Sì, forse sì, che non prenda le sconfitte come la fine del mondo. Più che altro, che siano qualcosa di positivo e non di negativo, perché quando perdevo no volevo avere niente a che fare con nessuno, credo che pretendevo troppo da me stessa e a volte giocavo contro di me. Proverei a prendere tutto con più tranquillità, di cercare altre cose da fare. Avevo cominciato a farlo nell’ultimo periodo e mi aveva aiutato sapere che esiste un mondo fuori dal tennis, che nella vita si possono fare altre piccole cose. Questo cercherei di introdurlo di più nel tennis.
Gastón Gaudio raccontava che in finale di carriera, di notte, usciva a fare foto. Tu che facevi?
In un certo periodo anch’io mi sono data alla fotografia e giravo con la macchina fotografica. In un altro periodo viaggiavo con la chitarra, che non era esattamente facile perché era un po’ grande da portare in giro. Ricordo che eravamo ad Amelia Island, allora Carlos Kirmayr era il mio allenatore e insisteva molto su questa parte, mi ha aiutato molto a ridurre la pressione. Io dicevo: “Oh, che bello sarebbe andare a cavallo sulla spiaggia!”. E Carlos, dopo la partita, mi diceva: “Andiamo a cavallo sulla spiaggia”. E così tante altre piccole cose. Carlos insisteva e funzionava.
Quali sono le prime cose che farai quando avremo recuperato un po’ di normalità dopo la pandemia?
Abbracciare i miei cari, andare a prendere un caffè o un gelato con gli amici. Però soprattutto vedere i miei cari e poterli abbracciare.
(Traduzione di Alessandro Condina)