Negli Stati Uniti il termine ‘education‘ non traduce, come si potrebbe immaginare, il nostro concetto di educazione. Riassume invece il percorso di formazione scolastica, che di solito culmina nella frequentazione di un college. Anche il termine ‘college‘ non corrisponde alle nostre università. Non solo perché si tratta di strutture molto più ampie, quasi delle piccole città, ma soprattutto perché le attività collaterali allo studio fanno parte a tutti gli effetti del percorso di crescita.
Tra queste attività c’è lo sport, e non nel senso che lo studente deve sgattaiolare fuori dal campus per giocare a tennis, magari sentendosi in colpa per aver sottratto tempo alle sudate carte. Nei college lo sport è una cosa seria, non è solo una valvola di sfogo. Ci sono squadre, allenatori, ci sono stadi da migliaia di posti. Il Tiger Stadium di Baton Rouge ospita i match casalinghi della squadra di football americano dell’Università della Louisiana e può contenere più di centomila persone. Tutto è sotto l’egida della NCAA, l’associazione nata 114 anni fa che gestisce attività sportive e campionati dei college statunitensi. E non immaginatevi campionati poco competitivi, misere tenzoni tra giovanotti: il secondo dei sei titoli vinti nella Division I di basket dall’Università del Nord Carolina, nell’anno di grazia 1982, è arrivato grazie al canestro decisivo di un certo Michael Jordan davanti a 60.000 persone (e 17 milioni di telespettatori). Quattro volte gli spettatori che hanno assistito alla finale di Wimbledon tra Federer e Djokovic lo scorso anno.
La sintesi è la seguente: negli Stati Uniti non devi scegliere se studiare o fare sport ad alto livello, magari sognando un futuro da atleta professionista. Puoi fare entrambe le cose.
Sarebbe sin troppo semplice concludere che la cultura sportiva statunitense, abbinata al concetto di education, è anni luce avanti alla nostra. “Non direi così. È un universo parallelo. È come vivere su un altro pianeta, non è avanti o indietro: è solo diverso. Il concetto di facoltà italiana non descrive il college americano“. A raccontarci questa differenza è Nicolò De Fraia, ormai per tutti ‘Nico’ perché dall’altra parte dell’oceano faticano a pronunciare il suo nome completo. Nico infatti vive a Orlando, in Florida, e a soli 23 anni – è nato nel 1997 – ricopre il ruolo di head coach della squadra di tennis del Rollins College. Difficile mappare le età di tutti gli allenatori dei team di NCAA, ma corre voce che Nico sia il più giovane di tutti; certamente è tra i più giovani.
Nicolò è nato e ha vissuto a Cagliari fino a 14 anni, e dopo essere stato tra i migliori tennisti under 12 e under 14 d’Italia si è trasferito per due anni alla Bruguera Academy di Barcellona, una parte di storia che vi avevamo già raccontato. Non sarebbe più tornato a casa: prima l’approdo alla Evert Academy di Boca Raton, dove oltre ad allenarsi ha concluso l’inusuale percorso di liceo ‘trilingue’ cominciato a Cagliari e continuato a Barcellona, poi la borsa di studio per meriti tennistici alla University of Central Florida (UCF), la più grande università statunitense per numero di iscritti – quasi 70.000 quest’anno. Nel 2017 ha conseguito la sua prima laurea in psicologia e durante gli studi si è allenato alla corte di John Roddick, fratello di Andy e suo allenatore nella prima fase di carriera. “Una persona splendida, come tutti i membri della famiglia Roddick” ci ha raccontato Nico che ha speso parole al miele anche per Tommy Paul, suo grande amico e coetaneo attualmente numero 57 del mondo: “Sono convinto che andrà ancora più su, da fondo campo è fortissimo“.
Alla ricerca di una scuola di business di prestigio, De Fraia si è poi trasferito al Rollins College di Winter Park dove ha sfruttato i due anni residui di eligibility per continuare a giocare nel campionato NCAA. A seguito degli ottimi risultati sul campo ha ricevuto nel 2019 la menzione onorifica di ‘All American‘, riservata agli atleti del college che si siano particolarmente distinti in una disciplina sportiva. Nello stesso anno ha conseguito la seconda laurea in International Business e ha cominciato un master in Business Administration, accettando contemporaneamente il ruolo di assistant coach della squadra maschile di tennis del Rollins College. A gennaio di quest’anno l’head coach ha deciso di ritirarsi per anzianità lasciando a Nico il ruolo di coach principale, che oggi ricopre assieme a un altro allenatore.
La storia di Nicolò De Fraia funziona meglio di qualsiasi spiegazione teorica sulle possibilità offerte dalla formazione accademico-sportiva statunitense. Possibilità che Nico conosce a 360° essendosi trasferito per un motivo ben preciso dalla UCF, università ‘Division I‘, al Rollins College, che invece sta in ‘Division II‘ (esiste poi anche la Division III). La differenza non è meramente sportiva, non si tratta solo di far parte di una lega universitaria più o meno competitiva. Il fatto che nei college Division I la dimensione sportiva sia di fatto quella del semi-professionismo – Nico racconta che in alcune partite c’era la TV a riprenderlo – va a braccetto con investimenti maggiori e criteri d’ingresso per gli atleti leggermente meno stringenti, che favoriscono la formazione di squadre più competitive. Nei college Division II (e D-III) il focus diventa invece accademico: nella maggior parte dei casi non fa differenza che il candidato sia o meno un atleta, deve comunque avere determinati voti per entrare.
Questo contribuisce a responsabilizzare i ragazzi, che possono compiere delle scelte sulla base delle proprie attitudini all’interno del sistema accademico. Un continuum fondamentale nel percorso di crescita. Nicolò ci aiuta a capire questo concetto con l’esempio di Jannik Sinner da una parte e di Kevin Anderson e John Isner dall’altra. “Sinner ha 18 anni ed è fortissimo; ecco, per lui forse avrebbe poco senso iniziare un percorso di studi che toglierebbe tempo a una carriera da professionista già avviata. Se però a quell’età non sei già così forte puoi benissimo studiare e giocare, e fino a 21-22 anni continuare a credere nella possibilità di diventare un professionista. Come hanno fatto Anderson e Isner“. Che infatti si sono affrontati da studenti in un match per il titolo NCAA nel 2007, quando avevano rispettivamente 21 e 22 anni, per poi contendersi l’accesso alla finale di Wimbledon undici anni dopo, nel corso di una massacrante semifinale a oltranza che spedì il sudafricano a sfidare (senza successo) il cannibale Djokovic.
La differenza cruciale sta nel fatto che dal percorso di formazione italiano, o più in generale europeo, un ragazzo che ha tentato senza successo la via del professionismo esce spesso privo di una valida alternativa lavorativa e con la necessità di costruirsela in fretta, quando magari è già vicino ai 25 anni, perché ha investito tutto nello sport. Un ragazzo che invece ha frequentato il college e contemporaneamente ha tentato di fare il tennista, anche in caso di fallimento, ha avuto tutte le possibilità di costruirsi un curriculum sufficiente a lavorare fuori dallo sport – possibilità che vanno ovviamente colte per mezzo di impegni, sacrifici (anche economici) e grandi capacità di gestione del tempo. “Il time management qui è fondamentale“, suggerisce Nicolò.
Anche in questo caso il suo esempio è calzante. Ci ha raccontato di aver affrontato e battuto nettamente Tsitsipas (un anno più piccolo di lui) in un torneo giovanile su terra quando aveva 15 anni, a riprova del fatto che il talento non gli manca – e questo lo sostiene anche Claudio Pistolesi, che lo conosce e lo ha allenato per qualche tempo negli Stati Uniti. Con grande maturità, però, Nico ha anche realizzato che probabilmente anche profondendo l’impegno massimo non sarebbe riuscito ad andare oltre il livello più basso, quello dei tornei Futures, un livello che certo non consente di vivere di tennis. I primi dubbi sono arrivati dopo un infortunio alla spalla dal quale ha avuto difficoltà a riprendersi, quando ancora stava investendo al 100% nella sua carriera di tennista. Si è rimboccato le maniche ed è uscito dalla sua zona di comfort, aiutato prima dalla famiglia e poi camminando sulle sue stesse gambe, e ha capito di dover investire anche e soprattutto sulla formazione accademica.
Le abilità acquisite con lo studio si sono rivelate fondamentali per ricoprire il ruolo che gli è stato affidato, quello di allenatore della squadra tennistica del suo college, che non prende solo decisioni sportive ma gestisce anche parte del budget messo a disposizione dall’università. Questa commistione tra carriera sportiva e accademica emerge perfettamente dalla risposta all’ultima domanda che gli rivolgiamo: “Come e dove ti vedi tra dieci anni?”. “Onestamente non lo so, ma sono aperto a tutto. Mi auguro di riuscire a fare la cosa che sia più redditizia per me e per la comunità. Molte famiglie non capiscono che il tennis può essere certamente parte della formazione di un ragazzo, ma non deve essere la priorità assoluta prima di una certa età, indipendentemente dal suo livello“.
Lontano, lontanissimo dalle beghe di quartiere del tennis italiano in cui – suo malgrado – fu coinvolto nel lontano 2014, quando era un giovane promettente che faticava a trovare spazio nelle rappresentative regionali per alcune frizioni della sua famiglia con Angelo Binaghi (già saldamente a capo della FIT), Nicolò De Fraia è volato più in alto di certe faccende. E ha tracciato una strada diversa. Vincente.