Di cosa parliamo, quando parliamo di dominio. Quando si chiacchiera di donne e racchette, ben dentro la terza decade del terzo millennio, il sostantivo è caduto in grave disuso. Da quando Serena gioca solo gli Slam, adesso che Masha ha posto fine alla sua accidentatissima coda di carriera, con Vika che non è più stata lei dopo aver procreato e Petra ex-Petrona, povera, dopo la vile aggressione domestica subita a Prostejov è diventata se possibile persino meno costante di prima, “ogni torneo può essere vinto da chiunque”, o quasi, per la felicità degli allibratori e lo smarrimento di molti ragazzini che non sanno quale poster attaccare sull’anta dell’armadio a muro.
Terra di nessuno e di conquista, da calpestare mentre si cammina verso un’era fatta di maggiori certezze, chi lo sa. Eppure, mentre il Tour maschile da più di quindici anni è sottomesso dal trio meno generoso della storia dello sport, molte ragazze possono sperare il colpo della vita alla vigilia di un Major. Si tratta di un andazzo momentaneo, e se nessuno oggi può prevedere quanto durerà, è certo che la storia sino a pochi anni fa è andata nella direzione diametralmente opposta: una rapida scorsa agli Albi d’Oro restituisce decenni ben saldi nelle mani di poche regine, perlopiù autoritarie, tanto prima, quanto dopo lo spartiacque del 1968 inaugurante la fatidica era Open. Particolarmente significativi in questo senso gli anni ottanta, durante i quali solo Evonne Goolagong (Wimbledon 1980), Tracy Austin (Us Open 1981) e Arantxa Sanchez (Roland Garros 1989) sono riuscite a strappare uno Slam al poker di leggende Evert-Navratilova-Mandlikova-Graf.
Una sfilata di campionesse da mettersi in ghingheri ad applaudire, e se l’obiettivo di questo articolo è scovare le sette che hanno centrato lo Slam senza aver avuto per il resto carriere “da” campionesse Slam, beh, è un obiettivo difficile da raggiungere. Proviamoci, nondimeno, come abbiamo già fatto con gli uomini. Con una piccola differenza: nella lista femminile ci siamo concessi un excursus in era pre-Open, per raccontarvi una storia che ci dispiaceva troppo lasciar fuori. Proprio da questa storia iniziamo.
1 – Karen Hantze Susman (Wimbledon 1962)
Preistoria, pre-era Open, ma non è un problema. Un dovere, anzi, citare in questo compendio Karen Hantze, “la Jennifer Capriati dei suoi tempi“, come ebbe a dire la famosa rivale d’epoca Nancy Richey qualche anno fa. Una bimba prodigio, vincitrice del titolo per ragazze sull’erba di Londra non molto prima di sollevare il trofeo vero a diciannove anni e mezzo. Sei finali in doppio con Billie Jean King (tre titoli), la parabola della tennista di San Diego prese presto una china discendente: il matrimonio da teenager con Rod Susman era già arrivato, e nell’ottobre del 1963 l’evento che ne modificò sensibilmente le prospettive di carriera. “La nascita di mia figlia Shelley mi fece capire che un certo modo di vivere il tennis era finito“.
Tornò e non per fare una passerella (quarti a Parigi e a New York nel ’64), ma la vita ormai guardava altrove. “Non giravano soldi nel nostro sport. Farne il mezzo di sostentamento principale per la famiglia non era un’opzione“. Si trasferì a St. Louis seguendo il marito nel frattempo divenuto assicuratore, per far capolino nel tour di tanto in tanto. L’ultimo rientro coincise con il terzo turno allo US Open del 1980. Ha sconfitto un tumore e continuato a insegnare tennis e a cucinare un leggendario polpettone ripieno: “Due discipline che ho praticato per più di cinquant’anni, dovrebbero riuscirmi abbastanza bene“.
2 – Chris O’Neil (Australian Open 1978)
Più di cinque lustri dopo, ancora un’altra epoca. Il montepremi complessivo dell’Open d’Australia salì a 300.000 dollari, di cui solo 35.000 destinati al tabellone femminile. Conseguenza? Persino le migliori giocatrici di casa preferirono andare a lavorare altrove favorendo l’incredibile galoppata di Chris O’Neill, campionessa dell’edizione 1978 che inaugurò il torneo da numero centoundici al mondo. Non necessariamente baciata dal talento puro, Chris durante la carriera ha dovuto sostentarsi servendo nei pub e lavorando da impiegata, spesso al fine di racimolare il denaro necessario a coprire i costi delle lunghe trasferte.
Purissima underdog se ce n’è una, O’Neill è stata per quasi vent’anni l’unica giocatrice a vincere uno Slam senza essere testa di serie (eguagliata da Serena Williams campionessa proprio in Australia nel 2007, con una storia invero un pizzico diversa) ed è tutt’ora l’ultima australiana ad aver vinto il Major di casa.
3 – Barbara Jordan (Australian Open 1979)
Tra le varie controindicazioni l’Open down-under vantava anche quella di disputarsi nel periodo delle festività natalizie, scoraggiando dal partecipare le maggiori stelle internazionali, peraltro, come già noto, non certo attirate dal misero montepremi. “Un tempo gli Slam non erano così fondamentali, ogni atleta costruiva il proprio tour annuale secondo i propri criteri,” ha avuto modo di dichiarare Chris Evert, “e dal punto di vista dei guadagni era molto meglio vincere dieci tornei piuttosto che uno Slam, oggi è esattamente l’opposto“.
Anche nel 1979, dunque, le più forti se ne stettero comode alla tavola imbandita lasciando campo aperto a molte soluzioni imprevedibili. Ne approfittò Barbara Jordan da Milwaukee, addirittura testa di serie numero cinque nonostante la sessantottesima piazza occupata nella classifica dell’epoca. Per lei fu l’unico titolo in singolare della carriera, con tanto di scalpo nei quarti di una diciassettenne che sarebbe di lì a pochissimo diventata discretamente famosa: si chiamava Hana Mandlikova e vinse l’anno successivo. “L’anno prima avevo rubato a Martina Navratilova l’unico set del torneo nella sua prima vittoria a Wimbledon, dunque sapevo che sull’erba non ero poi malaccio“. In finale fu derby vittorioso con Sharon Walsh, poi in Australia tornerà soltanto un’altra volta, nel 1983, e non superò mai più il terzo turno in un Major.
4 – Iva Majoli (Roland Garros 1997)
La crescita impetuosa e il picco raggiunto quando il declino era già iniziato senza che nessuno, tanto meno lei, se ne fosse accorto. Iva è stata una teenager superstar in campo e un’aspirante stella fuori, da adulta. Il gioco, dinamitardo, tutto subito, specie con il dritto ancorato alla linea di fondo. Almeno fino a quando le distrazioni del jetset non le afflosciarono, in meno tempo di quanto si aspettasse, le gambe necessarie a girarci attorno. Otto titoli in carriera di cui sette conquistati da teenager, con il culmine al Roland Garros 1997, dopo una finale che a ventitré anni di distanza ricordiamo tra le più grandi sorprese della storia del tennis in rosa.
Nel duello decisivo sul Philippe Chatrier Majoli lasciò sei giochi alla sedicenne Martina Hingis, che stava cavalcando una striscia di trentasette vittorie consecutive, vietandole di fatto un Grande Slam che con ogni probabilità avrebbe chiuso. La semifinale vinta al terzo contro Amanda Koetzer, la sudafricana che ancora oggi di tanto in tanto compare negli incubi di Steffi Graf, fu la partita più impegnativa del torneo della starlette di Zagabria, per dire. Al trionfo seguì un solo altro titolo, cinque anni dopo, a Charleston, vinto da numero cinquantotto al mondo. E una vita sparata a mille tra feste, dolci concessioni e un interesse sempre minore per la pallina gialla. Il pedice nella comparsata alla versione croata di “Ballando con le stelle“, anno di scarsa grazia 2007. Poi il rientro nei ranghi e la nomina a Capitana di Fed Cup, giunta nel 2012.
5 – Anastasija Myskina (Roland Garros 2004)
Ha vinto da protagonista la Fed Cup, e ora ne guida la selezione. È stata la prima russa a vincere un Major e a entrare nelle prime tre della classifica mondiale, con un best ranking alla posizione due nell’anno del trionfo di Parigi. Lo stesso dell’incredibile KO nella semifinale olimpica di Atene, persa facendosi rimontare da Justine Henin un vantaggio di cinque a uno nel terzo set: un match che il senno di poi ci aiuta a considerare probabile punto di non ritorno (ai fasti) di Anastasija Myskina.
La moscovita è stata una grande giocatrice, direte, e non merita uno spazio nell’elenco. Posto che questa antologia vuol essere tutto tranne che una pubblica gogna, occorre sottolineare che Anastasija, nonostante quella finale dominata a Parigi con Elena Dementieva, non è mai andata oltre i quarti di altro Slam e, specialmente a Bois de Boulogne, lo score dice cinque eliminazioni al primo turno in otto partecipazioni. Jelena Ostapenko, un Rolando vinto e quattro eliminazioni all’esordio nelle altre quattro partecipazioni, il cui inserimento in questa graduatoria sarebbe assai ingeneroso in virtù della sua carriera assai giovane, ha ancora tempo per migliorare quel risultato – ma può iniziare a fare i debiti scongiuri.
6 – Marion Bartoli (Wimbledon 2013)
Potentissima, fragilissima, allevata nel laboratorio tennistico paterno per giocare a tennis in modo perlomeno inusuale. Piedi confinati sul perimetro e botte da orbi con dritto e rovescio a due mani. Nonostante i noti problemi spesso sperimentati al momento di chiudere le partite, bisogna dire che qualche volta ha funzionato. Nel 2007 la prima finale a Church Road persa contro Venus Williams, poi anni a buoni livelli senza mai dar la sensazione di poter centrare il bersaglio grosso: soprattutto nella stagione del trionfo, che fino al momento topico mai l’aveva vista spingersi oltre i quarti di finale nei tornei sin lì frequentati.
Brava ad approfittare delle due settimane d’agonia vissute dalle favorite, Marion vinse senza dover affrontare alcuna collega compresa tra le prime quindici della classifica, battendo facilmente in finale la carnefice della favoritissima Serena Williams, una Sabine Lisicki stravolta dalla tensione e più volte in lacrime nel corso della partita.
Un percorso anche fortunato, che sancì la fine sostanziale e improvvisa della sua carriera, con il ritiro annunciato di lì a poco. Seguirà un retiro tormentato: Marion cominciò a comparire in pubblico di molto dimagrita ed esibendo un aspetto fisico da cui era obbligatorio desumere indizi poco rassicuranti. Arrivarono le cure, il ritorno alla normalità, e un rientro smentito, poi rinviato, e riconfermato per essere poi cancellato. Sul campo non la rivedremo più, e quando ha smesso non aveva trent’anni. Però il coppone dei Championships fa bella mostra di sé dalle parti di Le Puy-En-Velay.
7 – Flavia Pennetta (US Open 2015)
Fate come foste lettori stranieri, non coinvolti sentimentalmente con Flavia e con una tra le imprese più importanti nella storia dello sport italiano. Quanti, mettendosi una mano sul cuore, l’aspettavano con la coppa in mano nella notte di New York dopo aver per giunta battuto in una finale tutta pugliese Robertina Vinci? Vediamo pochi lettori con le mani alzate, e in ogni caso non sappiamo se accordare loro fiducia. Flavia a New York ha trovato una sorta di seconda casa e questo va detto: cinque quarti di finale (due vinti, l’altro, indovinate un po’, battendo Roberta Vinci) non si inventano, ma in questo caso è obbligatorio analizzare il consuntivo valutando il contesto e il fatto che Serena Williams fosse a meno di dieci centimetri dal Grande Slam: concederete una piccola modifica al criterio generale.
La faccia di Mouratoglu e dei ventiquattromila dell’Arthur Ashe mentre Robertina aizzava il pubblico in piena trance agonistica nella semifinale delle semifinali rimarrà impressa nelle memorie finché si giocherà al gioco del tennis, esattamente come l’istantanea delle due amiche sedute una accanto all’altra durante la premiazione al termine dell’ultimo atto. Peraltro Flavia l’anno prima aveva vinto Indian Wells, dunque proprio l’ultima arrivata non era. Ma pronosticarle una vittoria Slam sarebbe stato un azzardo non da poco.
Opinabile e oggetto di recriminazioni, unica natura possibile di ogni elenco o antologia che si rispetti. Intanto, avercelo uno Slam in bacheca. E in ogni caso vi sfidiamo, dati i parametri che ci siamo scelti: la caccia al nome di un’altra stella minore eleggibile è aperta.
I migliori a non aver mai vinto uno Slam (secondo ESPN)
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