All’appello di questo maledetto 2020 mancheranno tanti e tanti tornei, alla fine. Tornei piccoli e tornei grandi. Da poche ore sappiamo per esempio che non si giocheranno le finali di Davis, rinviate al 2021, e da una decina di giorni che non si giocherà il Masters 1000 di Cincinnati; o meglio, si giocherà, ma sui campi di Flushing Meadows a New York e sarà dunque un affare completamente diverso. Che di questi tempi va benissimo, per carità, lo si giochi anche sul ghiaccio pur di vedere un po’ di tennis, ma sotto un profilo squisitamente storico sarà un torneo difficile da inserire negli almanacchi senza un paio di grossi asterischi a spiegare la situazione straordinaria (gli altri, quelli che almeno si disputeranno nella sede originaria, di asterischi ne avranno solo uno).
Ci è dunque sembrato logico fare un salto indietro nel tempo, al 2018, quando le parole ‘Cincinnati’ e ‘Coppa Davis’ hanno costituito due snodi cruciali della stagione. La prima perché, in Ohio, Novak Djokovic è riuscito a vincere anche l’ultimo ‘Mille’ che gli mancava, completandone la collezione; la seconda perché, pochi giorni prima, la competizione a squadre veniva cambiata per sempre da una riforma epocale.
Cincinnati 2018. Finale. Roger vs Nole. Due anni dopo. In mezzo l’unica restaurazione dorata della storia dell’umanità. Per il serbo sarebbe il titolo più importante. Per lo svizzero la prova del nov(antanov)e. Per il mondo del tennis una sentenza con importanti implicazioni filosofiche. Se vince Roger il tempo semplicemente non esiste. Invece di essere un dio astratto del quale siamo tutti schiavi, sarebbe solo una variabile della volontà dello svizzero, con buona pace di Einstein, Sant’Agostino e della scienza contemporanea. Se vince Nole diventerà il primo tennista della storia a fare bingo tra Masters 1000 e Slam. Nessuno come lui. E soprattutto gli ultimi due anni di Roger-stupore, da incredibile miracolo diventerebbero una strana parentesi sintetizzabile nella frase “Hey ragazzi, ciao, come va? Sono tornato” e a seguire il famoso amichevole sorriso di Nole, tipo Anna Maria Franzoni.
Credo che il vero motivo per cui Federer sia così amato è questa sua componente extratemporale che David Foster Wallace chiamò religiosa. Lui non gioca mai solo nel presente ma è diacronico con la storia stessa del tennis. È come se accanto alla partita visibile a tutti, i gesti luminosi dello svizzero si riverberassero anche su un piano parallelo e invisibile. Invisibile ma percepibile dall’istinto dell’appassionato di tennis. Un mondo meraviglioso in cui coesistono Lever, Mc, Borg, Sampras, Tilden, Don Budge, ecc. Un mondo in cui Nole vorrebbe tanto esserne cittadino onorario, ma ci è dovuto entrare da solo, senza esserne invitato, armato di titoli, numeri e record, ma una volta lì, tranne qualche saluto di circostanza, nessuno ha mai parlato davvero con lui. E mentre gli altri ridevano e raccontavano aneddoti e ricordi lui si è sentito solo, con un cocktail nella mano e in faccia il suo famoso sorriso.
Detto tra noi, il vero motivo della “grande crisi” post Parigi 2016 è stato questo. Ha sconfitto i mostri sacri, ha vinto Parigi, ha messo in sequenza, per la prima volta dopo Laver, i quattro tornei dello Slam e nessuno, ma proprio nessuno, ha celebrato l’evento. Erano ancora tutti intenti a parlare di Roger e Rafa, di Rafa e Roger.
Insomma, sotto un cielo di almeno trenta gradi più ampio di quello europeo, dovrebbe andare in scena una di quelle partite quadrimensionali il cui risultato ha il potere di modificare sia il futuro che il passato del tennis. Per chi ha occhi impressionisti, o impressionabili, è questa roba che andava in scena a Cincinnati.
Nella tavola blu perimetrata da righe bianche, sotto quel cielo americano in cui le nuvole sembrano così vicine che le puoi toccare, c’erano disposti tutti gli ingredienti necessari per un giorno epocale. E invece, sarà stata colpa del mio pessimo streaming in giapponese, sarà stato che Federer aveva lasciato l’armatura immateriale nello spogliatoio, sarà stata Mirka improvvisamente carina (come se la bolla atemporale di Federer s’irradiasse pure su di lei), ma la partita è scivolata via come se un vetro impermeabile avesse impedito ogni rifrazione sulla quarta dimensione. Niente pathos, nessuna battaglia metafisica, nessun rovescio sparato con telepatico anticipo, nessun quinto set, nessun quarto set, nessun terzo set.
Semplicemente una torta con ingredienti extralusso che non è lievitata. In poche parole quella che doveva essere l’ennesima[1]sliding door dello svizzero è diventata il prequel del tennis nel futuro. Enormi aspettative e musica roboante per una semplice partita due set su tre, anche se in finale. Una crudele sintesi della parallela riforma della coppa Davis, non a caso varata negli stessi giorni. Un grande baraccone con effetti speciali, spot, musica epica ma iscritta rigidamente dentro la dittatura dell’istantaneità, il grande demone che accanto al sempre più algido e redditizio professionismo si sta mangiando il pianeta e il cuore delle cose. Insomma un attentato alla grammatica mistica del tennis in nome d’interessi televisivi e pseudo-democrazia.
A Cincinnati i nostri occhi impressionevoli hanno visto scendere un cupo sipario non solo sulla New Golden Age del tennis, ma sul tennis in generale. Una specie di epifania di quello che è stato e non sarà mai più. A sigillare l’epifania è bastato un Nole dimezzato. Scomparso quello in grado di prendere il centro del campo e bastonare di lunghezza e ritmo gli avversari è bastata la sua versione precedente. Un uomo di gomma in grado di ribattere ogni colpo, ogni fottuto colpo.
Per battere quel Nole sarebbero serviti miracoli anticipati in serie. Roba che Roger dopo l’incredibile estate australiana e il Sunshine Double del 2017 non è più stato in grado di ripetere con continuità. Per prolungare la sua immortalità ha scelto di centellinarsi, diventando di fatto una divinità part-time paradossalmente suffragata da successi a ripetizione e record su record. Una reliquia portata a spalle da milioni di devoti pronti a urlare al miracolo a ogni lacrima, gesto o vittoria, anche minore.
Rimango convinto che la vera e unica immortalità possibile, per chi è già immortale, sarebbe stata cavalcare il momento magico australiano e andare a Parigi, e sfidare Rafa, e vincere, e puntare dritto dritto al Grande Slam, al GOAT matematico o al Santo Graal, fate voi. Quella roba lì avrebbe fatto vibrare ogni sua partita a una frequenza incommensurabile, sconfitte comprese. Perché anche le sconfitte, soprattutto quelle sconfitte, fanno parte del grande racconto dello sport. Sconfitte come quelle a Roma contro Rafa in cinque set, in un mastersmille di mille anni fa.
Sconfitte che nella nuova fast-Era non ci saranno mai più. Una nuova era che avrà il torneo Next-Gen come rito di passaggio e la New Coppa Davis come capolinea, e speriamo che non prenda troppo della stramba rivoluzione di Mouratoglou. Certo ci saranno ancora Grandi Vittorie ma mai più Grandi Sconfitte. Praticamente un mondo dimezzato dove, tranne (ancora) negli Slam, si è tolto chirurgicamente il sale segreto della grandezza. Insomma la cosa grave non è che non ci sarà più un altro Federer o un altro Nadal, ma non ci saranno più i Mecir, gli Ivanisevic, i Leconte, i Mosé Navarra, i Nalbandian, i Gerulaitis, i Cané, i Gulbis, i Paes, i Mirnyi, i Kukushkin, i Dario Hubner, i Chiorri, i “Màgico Gonzalez”, i Franco Caccia, i Gigi Riva (che fosse andato alla Juve avrebbe vinto 10 scudetti ma non sarebbe Gigi Riva) insomma quella lunga meravigliosa collezione di lampi vincenti, poco importa se fatti da perdenti o da malinconici eroi di provincia Just for one day.
Le grandi cose passano necessariamente fuori dalle rotaie della logica, altrimenti sono e rimangono solo record. Se le grandi vittorie dei campioni sono l’inchiostro magico in grado di trasformare uno sport in Storia, la carta su cui si scrive è necessariamente costituita dalle grandi sconfitte. Senza quella carta ci rimarrà solamente un pallottoliere.
[1] Per le altre sliding doors di Federer vedi qui