Può una notizia essere attesa e sorprendente allo stesso tempo? Evidentemente sì, perché questo è l’impatto che ha avuto il tweet di Jon Wertheim di poche ore fa:
“I giocatori sono stati informati che non verranno ospitati nell’albergo dell’aeroporto JFK“. Facendo un breve riassunto, la USTA aveva inizialmente pensato di creare una bolla prenotando tutto l’hotel per la durata dei due tornei newyorchesi (Cincinnati e US Open), ma in seguito alle proteste dei giocatori più forti, impossibilitati dalle nuove misure a portarsi il proprio team, si era trovata una via di mezzo che includeva la possibilità di affittare una casa e di portare fino a tre membri della propria équipe. Adesso, però, sembra che possa aver luogo ulteriori diluizioni degli alloggi (ora gli alberghi sono due) e del numero di accompagnatori, tre per ciascuno:
Eppure, i segnali inviati dal virus sembravano andare nella direzione opposta: in fondo, l’unico evento a spalti pieni aveva fatto molto per minare l’immagine del tennis, servendo anzi da spot contro le celebrazioni affrettate, e la pandemia negli USA è ripartita a ritmi superiori a quelli di marzo e aprile, anche se non nella Grande Mela.
Dopo l’Adria Tour, il consenso era chiaro: i giocatori hanno provato a fare di testa propria e l’hanno pagata, ergo saranno molto più flessibili alle nostre richieste, come aveva detto, parafrasando, Andrea Gaudenzi. Queste le parole del CEO dell’ATP: “È un po’ come quando dici ai tuoi figli di indossare il caschetto mentre provano ad imparare ad andare in bicicletta. Dicono ‘no, no, no’ e continuano a guidare la bicicletta, poi cadono e allora mettono il caschetto. Adesso tutti sappiamo che può accadere molto facilmente, quindi staremo ancora più attenti e forse saremo più comprensivi e tolleranti nei confronti della creazione della bolla”.
Che cosa è successo, quindi? Difficile saperlo con certezza, soprattutto perché:
a) le indiscrezioni non sono confermate seppur provenienti da fonti di tutto rispetto;
b) a dispetto delle parole della USTA, gli aruspici non avranno accolto la cancellazione di Washington come una folata d’ottimismo.
Inoltre, l’intera gamma delle eventuali richieste degli atleti non verrà mai resa pubblica, anche se si può tranquillamente supporre che la fine del Manhattan Project in budello e fibra sintetica abbia molto a che fare con esse, visto che la problematica dello staff è emersa da più parti, e l’allargamento del numero di “ospiti” è indicativo in questo senso.
La questione, tuttavia, ci dice molto delle aporie dello sport contemporaneo, nel senso che da valori simili scaturiscono risultati diversi e anzi apparentemente contraddittori. Il valore in questione è quello del player empowerment, ovvero della crescita del peso politico degli atleti all’interno delle discipline.
Ogni fan della NBA potrà dirvi che le finestre competitive delle squadre sono ormai determinate da specifiche estati (quella del 2016, quella del 2019) in cui buona parte del gotha della Lega è in scadenza di contratto, e questo permette un riallineamento delle gerarchie, gerarchie che però non durano molto perché chi cambia squadra di propria spontanea volontà (vale a dire senza essere scambiato) può firmare al massimo un quadriennale, e spesso non firma neanche quello, per darsi più libertà di movimento e beneficiare del progressivo aumento degli stipendi con rinnovi più frequenti. Nel calcio, mutatis mutandis, si potranno notare le cessioni sempre più frequenti di giocatori che hanno rinnovato da poco, fenomeno che in genere indica una volontà del calciatore di essere ceduto già da prima, con il nuovo contratto che serve ad aumentarne il valore di mercato.
Il tennis non ha queste logiche, essendo uno sport individuale, ma ha alcune similitudini con gli sport americani, per esempio il rapporto fra un guadagno fisso (monte salari per le leghe americane, prize money per i tennisti) e guadagni extra-campo, la vera discriminante fra l’establishment e gli altri. Inoltre, è innegabile che il peso decisionale dei giocatori sia aumentato, vuoi per i successi senza precedenti dei Big Three e di Serena Williams, vuoi perché la combinazione fra questi e la creazione di un brand personale favorita dai social media li ha resi per certi versi dei marchi superiori a quelli dei rispettivi tour, che possono quasi solo dipendere dal calloso pollice dell’imperatore di turno. Ne è una conferma il fatto che Nadal, Federer e Djokovic siano tutti membri del Player Council, un evento che, come ci ricorda Mats Wilander, non ha precedenti, almeno nel tennis Open – l’OPA di Bobby Riggs e Jack Kramer ai tour del tennis professionistico ebbe probabilmente un impatto ancora maggiore.
Okay, ma dov’è che i percorsi fra i due sport si separano? Per quanto riguarda la NBA, molteplici fonti hanno riportato una grande insistenza da parte dei giocatori più in vista per una ripresa, che sia per la legacy di LeBron James, per l’afflato competitivo di tutti i giocatori franchigia delle squadre da titolo, per motivi economici o per Black Lives Matter (anche se su quest’ultimo aspetto, almeno inizialmente, ci sono stati pareri discordanti), ma bene o male alla fine tutti i protagonisti maggiori hanno accettato di confinarsi nella bolla di Orlando, circondati dai compagni e da tutto il loro staff. Niente fattore campo, famiglie o serate? Ce ne faremo una ragione, e i roster delle squadre sono stati ampliati per coprire eventuali positività o infortuni. Vediamo quindi come il potere dei giocatori sia andato nella direzione di favorire il confinamento dorato di Disneyworld.
E nel tennis? Nel tennis è possibile che per le stesse ragioni si prenda la decisione opposta, perché opposte sono le esigenze. Quello con racchetta è un gioco globale, dove i giocatori girano costantemente e non solo per gli Stati Uniti, ma individuale, in cui l’approccio iper-professionista riflette l’esigenza di essere circondati dai propri “compagni di squadra” (coach, psicologo, nutrizionista, fisioterapista, ecc…) per poter dare il meglio, e questa è una grossa differenza se pensiamo a come sono state concepite le due bolle – da un lato i cestisti sono confortati dalla presenza dei preparatori, dall’altro anche senza di loro scendono in campo con quattro compagni, e la pagnotta è garantita a prescindere, mentre il tennista è solo, durante il match e nella generazione di introiti per l’entourage, e si appoggia a una sovrastruttura da cui può dipendere il suo benessere e breve ma soprattutto a lungo termine.
Questo tema si associa a una maggiore debolezza economica del tennis rispetto alla NBA, cosa che non ha permesso la cooptazione di un luogo delle dimensioni di Disneyworld, creando quindi delle limitazioni a cui i top player si sono ribellati.
L’aspetto della legacy è sicuramente interessante, perché ci mostra un’altra differenza fra i due sport, visto che mentre da una parte prosegue l’inseguimento al fantasma di Jordan (“The Last Dance” avrà fatto venire la bava alla bocca a molti), dall’altra siamo in un’epoca crepuscolare, in cui il superiore magistero dei migliori è già stato affermato, e si cerca solo di ritoccare questo o quel record, con la possibile eccezione di Djokovic. Infatti, le prime conferme per Flushing Meadows sono arrivate dai potenziali regicidi (Thiem, Tsitsipas, Medvedev) piuttosto che dai monarchi, decisamente più propensi a centellinare gli impegni per una questione anagrafica e quasi prossemica – sanno di arrivare in fondo, quindi non hanno bisogno di giocare sempre.
Può risultare difficile coniugare le dichiarazioni di generosità e l’impellenza dei mancati introiti a richieste per certi versi contingenti come quelle che sono arrivate alla dirigenza della USTA, ma ricollegandosi alla tematica del player empowerment forse una logica può essere desunta. Essere un campione oggi vuol dire vendere il proprio modello di eccellenza e integrità 24/7, e per farlo bisogna dare un colpo al cerchio (usare la propria immagine di icona globale per difendere i diritti dei colleghi rafforzando il proprio peso politico) e uno alla botte (mettersi nelle condizioni di continuare a vincere così da tenere in piedi la struttura di potere e denaro di cui sopra), ed è possibile che per molti sia il modo giusto di costruire il futuro del gioco. Quindi: giochiamo a tutti i costi ma solo se ci date tutto quello che vi chiediamo? Giochiamo a tutti i costi ma solo se ci date tutto quello che vi chiediamo.
Pretesa egoista? Probabile. Campata per aria? Non così tanto.