La croata Donna Vekic, classe 1996, è in continua ascesa dal 2015 e ha chiuso la scorsa stagione al diciannovesimo posto del ranking WTA, grazie anche agli importanti risultati ottenuti a livello Slam (ottavi al Roland Garros e quarti allo US Open). Il suo obiettivo dichiarato è entrare in Top 10, e se pare difficile che riesca a farlo in questo 2020 liofilizzato, chissà che questo traguardo non sia semplicemente rimandato al 2021. Oltre a due titoli WTA, vinti nel 2014 (Kuala Lumpur) e nel 2017 (Nottingham), nel suo palmarès figurano altre sei finali, disputate dal 2012 ad oggi – la più importante delle quali è quella raggiunta al Premier di San Pietroburgo nel 2019, dove ha sconfitto lungo il percorso la allora numero 2 Petra Kvitova per 6-4 6-1.
Alla ripresa del circuito dopo lo stop per coronavirus è scesa in campo nel Ladies Open di Palermo, dove è stata sconfitta al secondo turno da Elisabetta Cocciaretto, mentre tra qualche giorno si calerà nella ‘bolla’ di New York per giocare prima il Western & Southern Open e poi lo US Open. Al portale Behind The Racquet, la nativa di Osijek ha raccontato il suo percorso e il suo amore immediato per il tennis, dovuto soprattutto alla competitività che uno sport del genere fomenta.
“Ho iniziato a giocare a tennis quando avevo sei anni. Dai quattro ai sei ho praticato la ginnastica artistica, che è uno dei miei sport preferiti, soprattutto da guardare in TV. Quando ho iniziato a fare ginnastica non è mai stato per diventare una professionista o cose del genere. Stavo migliorando sempre di più, ma un giorno gli allenatori si avvicinarono ai miei genitori e dissero loro che sarei diventata troppo alta per questo sport. Ripensandoci immagino che avessero ragione. L’estate si avvicinava e i miei genitori mi dissero che avrei dovuto provare qualcos’altro. Io dissi: ‘Perché non il tennis?’.
Mi ha preso fin dal primo giorno. Ricordo che mi slogai la caviglia in casa il giorno del primo allenamento, ma ci andai lo stesso. Il tennis mi piacque fin dall’inizio, probabilmente perché ero molto competitiva. Odiavo perdere e avevo sempre bisogno di vincere. Amo veramente il tennis. Non c’è niente di meglio che giocare una partita notturna, specialmente negli Slam. Si può intuire quanto ami questo sport dal fatto che, anche se passo tutto il giorno sul campo, la prima cosa che faccio quando torno in albergo è accendere la TV e guardare altro tennis.
Ricordo una delle mie più lunghe strisce di sconfitte. Avevo circa 16 anni e avevo perso sette partite di fila, e questo quando il numero di tornei pro che potevo giocare era limitato (le tenniste dai 14 ai 17 anni possono prendere parte a un massimo di 10 tornei l’anno, ndr). Non potevo giocare settimana dopo settimana per cercare di ottenere quella vittoria. Ho finalmente vinto la mia prima partita dopo un po’ di tempo a Indian Wells – un sollievo incredibile. Dopo aver perso un paio di partite era diventata una questione mentale, pensavo di non avere le qualità necessarie. Il problema è che ero salita rapidamente in classifica. Avevo 16 anni ed ero già nella Top 100. A 17 ho vinto il mio primo evento WTA (a Kuala Lumpur nel 2014, ndr). Ogni volta che raggiungevo una finale o vincevo un torneo, quello successivo era da buttare. Perdevo presto a causa di tutta la pressione che mi mettevo addosso.
Non mi piaceva molto giocare all’età di 18-20 anni. Tutti si aspettavano che continuassi a vincere per via di ciò che avevo fatto a 16 anni. Non succede sempre così, anzi, è molto raro. Ora quando vedo tutte queste giovani ragazze che vincono, so che a un certo punto si bloccheranno. Da quel momento in poi dipende tutto dal modo in cui affrontano la cosa e agiscono per superarla. Molta della pressione viene dai media. Ricordo di aver letto un articolo in cui mi avevano definito una “turista” del torneo. Non mi era mai piaciuto leggere troppo di me stessa, anzi, non vi avevo mai prestato troppa attenzione. A volte era più facile, perché non passavo tanto tempo in Croazia e quindi non sentivo quello che la gente diceva di me. Però anche se non vuoi, senti comunque che la gente parla di te.
Continuavo a lavorare duramente, mi allenavo, facevo tutto per bene, ma questo non si rifletteva in partita. Alla fine, ho ammesso a me stessa che non mi stavo più divertendo a giocare. Le cose cambiarono e in classifica passai da essere fuori dalle prime 100 a entrare nelle prime 20 del mondo. Sono cresciuta davvero, attraverso il naturale processo di crescita, e sono diventata più matura. Non posso dire che sia stato perché lavoravo di più, ero solo più consapevole.
Ho avuto la fortuna di avere un 2019 straordinario. Sia il mio allenatore Torben Beltz, sia il mio preparatore atletico, Zlatko Novkovic, mi hanno aiutata molto. Non so cosa farei senza di loro. Andiamo così d’accordo che non vedo l’ora di partire per i tornei e di stare con loro. Torben è un ragazzo così positivo, e questa è una cosa molto importante per me. Sono una persona che tende a buttarsi giù e ad essere molto dura con se stessa. Riesco a trovare un equilibrio perché sono anche molto socievole e amichevole. Ci sono alcune sere in cui sto nella mia stanza, non parlo con nessuno e chiedo il servizio in camera. Il più delle volte ceno con il mio team o con gli amici.
Sono in buoni rapporti con la maggior parte delle ragazze sul tour. Una delle mie migliori amiche è Maria Sakkari e non è mai facile doverci giocare contro, cosa che è capitata alcune volte di recente. È terribile. Entrambe vogliamo vincere la partita ma allo stesso tempo c’è un rapporto di amicizia fra noi. La cosa peggiore è che lei conosce ogni singola mossa che farò, ma anche io, proprio come lei, so cosa pensa in ogni istante. È una sensazione strana. Per tutto il match penso: ‘Voglio solo che questa partita finisca’. Non penso troppo all’amicizia durante la partita perché so che rimarrà sempre. Abbiamo questa tradizione per cui chi vince paga la cena.
Il mio miglior consiglio per la prossima generazione di tennisti e tenniste è di trovare la positività. Non pensate troppo, cercate di guardare al quadro generale. Pensate a lungo termine, perché ancora adesso mi capita di pensare di volere qualcosa subito, ma questo non mi aiuta a giocare meglio. È difficile da fare, per questo avete bisogno di un team che vi aiuti. Non tutti possono riuscirci, non è facile, ecco perché il tennis è così tosto”.
A cura di Lorenzo Zantedeschi