Per chi fosse interessato a vedere il dataset completo, questo è il link
Il tennis su terra battuta sta per entrare nel vivo con il Roland Garros. L’inizio dello swing sul rosso è generalmente percepito come una rinascita per i tifosi europei, un po’ perché il gotha del tennis mondiale si ritrova nel Vecchio Continente al termine delle trasferte oceaniche e nord-americane, un po’ perché le partite ricominciano a svolgersi ad orari che non compromettano ritmi circadiani e vite private, un po’ per la vetusta associazione con le fioriture della primavera romanza, arma a doppio taglio del maggio romano, soprattutto per chi è allergico ai pioppi.
Quest’ultimo aspetto non ha ragion d’essere nel 2020, visto che la terra si è presentata in un’inedita mise tardo estiva o proto-autunnale, ma per certi versi quello del rinnovamento non è mai stato più pertinente, per le ragioni note a tutti. Vista la cesura che la pandemia ha rappresentato per il tennis e non solo, la redazione ha deciso di tirare le somme su 52 stagioni di tennis Open sulla superficie (più Roma 2020), provando a trovare dei parametri oggettivi per vedere chi siano stati i più dominanti nella specialità.
L’analisi è incentrata sul concetto, assurto a grande popolarità negli ultimi anni fra i fan dei Big Three, di “big titles”, ovvero Slam e Masters 1000 o qualunque fosse il loro nome dalla creazione del Grand Prix (avvenuta nel 1970) – da allora si sono chiamati Grand Prix Super Series (fino al 1989, includendo anche eventi del circuito WCT), e poi Championship Series, Super 9 e Masters Series, prima di approdare all’appellativo odierno nel 2009. Nel caso della terra, quindi, si parlerà del Roland Garros, di Montecarlo, di Amburgo/Madrid e di Roma. Ma non solo, come si vedrà.
Per studiare il rendimento dei giocatori nei suddetti tornei sono stati scelti due dati che dessero una panoramica completa o che quantomeno consentissero di studiarli e valorizzarli da più punti di vista – il risultato è stato un dataset di 258 righe per 11 colonne, consultabile attraverso il link posto all’inizio dell’articolo. Il primo è lo score totale ottenuto nei tornei di cui sopra, con un sistema di punteggio molto semplice: da un lato, 2 punti per una vittoria Slam, 1 per una finale, 0,5 per una semi, 0,25 per un quarto; dall’altro, un punto per una vittoria in un 1000 o Masters Series o Super 9 che dir si voglia, 0,5 per una finale, e 0,25 per una semifinale. Questo dato è il più rilevante, perché consente di individuare i migliori performer sul lungo periodo, vale a dire, banalmente, chi ha effettivamente vinto di più.
Il contre per un valore tanto netto è, evidentemente, la media conseguita dai giocatori nei tornei in cui sono arrivati in fondo (le sconfitte ai primi turni non fanno dunque parte dello studio, perché il punto dell’articolo è definire l’animus vincendi dei vari atleti). Questo è un valore più ambiguo ma utile allorché interpretato correttamente e in sinergia con l’altro, perché una media alta permette di capire quali siano stati i giocatori capaci di vincere più spesso quando sono arrivati alle fasi calde dei tornei.
Una breve digressione: i big data (o advanced statistics, o sabermetrics, o moneyball) stanno rivoluzionando tutti gli sport, che piaccia o meno, fornendo dei mezzi per superare i preconcetti legati alla disciplina singola, in particolare da un punto di vista tattico, e sono infinitamente più complessi dello studio qui riportato. Cifre legate alla lunghezza degli scambi, allo spin o alla direzione della battuta ci aiutano a comprendere il gioco mentre accade, per certi versi coadiuvando l’immedesimazione (nel limite della conoscenza delle condizioni psico-fisiche dei giocatori, decisamente meno prevedibili), laddove un’analisi secca del rendimento (che prende in esame solo i risultati finali e la loro continuità) è totalmente ex post, e quindi ha un valore puramente storico, fotografa l’esistente quasi come la Legge Mammì (o legge polaroid come fu chiamata allora) – in sostanza, non ci sono inferenze con un valore pratico.
L’articolo al massimo può essere chiamato un dibattito da social nell’iperuranio, vale a dire un dibattito da social in cui i contendenti portino dei dati concreti e imparziali a sostegno delle proprie argomentazioni (magari con un atteggiamento urbano) – John Lennon ci direbbe che è facile immaginarlo, per quanto improbo possa sembrare. Cleuasmo finito, si può passare all’analisi.
L’ANALISI
Cercando di evitare le perifrasi, la posizione meno interessante di questo studio è la prima: Rafa Nadal è l’equivalente del military-industrial complex denunciato da Eisenhower, una struttura economica di tale portata da rendere il budget bellico americano superiore alla somma di quelli dei Paesi che vanno dal secondo al settimo posto – ecco, Nadal è così. Ciò che ha fatto il maiorchino negli ultimi tre lustri su una superficie (con una piccola pausa nel biennio 2015-2016) non ha eguali nella storia del tennis e forse dello sport, tanto che ESPN l’ha appena premiato come atleta più dominante del ventunesimo secolo per i suoi 12 titoli parigini.
Come noto, l’unico tennista capace di obnubilare la concorrenza sul rosso alla stessa maniera è stato Bjorn Borg, che ancora oggi detiene il record per il minor numero di giochi persi in uno Slam maschile (32, nel 1978), ma che, come si vedrà, è paragonabile al Toro di Manacor solo in termini intensivi (nei suoi anni dominava allo stesso modo) ma non estensivi (l’ha fatto per molto meno tempo).
D’altronde, una prima occhiata ai big titles su terra ci restituisce un’immagine molto precisa:
- Nadal, 37 (12 Slam+25 Masters Series/Masters 1000);
- Borg, 14 (6+8);
- Lendl, 11 (3+8);
- Djokovic, anche lui a 11 ma con un solo Slam vinto (1+10);
- Vilas, 9 (2+7);
- Kuerten, 7 (3+4);
- Federer, Muster, Nastase, Orantes, anch’essi a 7 ma con un solo Slam vinto (1+6);
- Wilander, 6 (3+3);
- Bruguera e Courier, 4 (2+2);
- Connors e Ferrero, come nel caso precedente, 4 ma con un solo Major (1+3).
Rafa ha dunque più grandi vittorie su terra dei tre che lo seguono combinati, e ha più titoli a Bois de Boulogne di quanti ne abbiano gli altri, Orso a parte, in totale. Questo valore è talmente fuori scala da riflettersi pedissequamente nel primo dato, quello sui punti totali:
- Nadal, 53,75 punti (24,25 negli Slam, 29,5 nei 1000);
- Djokovic 23,75 (8,5+14,25);
- Borg (13,75+9) 22,75;
- Vilas, 21,75 (9+12,75);
- Federer, 20,25 (8,5+11,75);
- Lendl, 18 (8,5+9,5);
- Wilander, 14,5 (8,75+5,75);
- Orantes, 13,75 (4,5+9,25);
- Nastase, 12,5 (4,5+8);
- Kuerten (6,5+5,25) e Connors (7+4,75), 11,75;
- Muster, 9.5 (2,75+6,75);
- Bruguera, 9,25 (5,5+3,75);
- Ferrero, 8,25 (4+4,25);
- Courier (5,75+2) e Agassi (6+1,75), 7,75.
Come si può vedere, alcuni valori sono però piuttosto diversi (Borg e Djokovic appaiati, Lendl superato da Vilas e Federer, e via dicendo), e questo ci porta al dato riguardante la media:
- Borg, 1,197;
- Courier, 1,107;
- Nadal, 1,097;
- Kuerten, 0,979;
- Lendl, 0,947;
- Muster, 0,864;
- Bruguera, 0,841
- A. Medvedev, 0,821;
- Wilander, 0,763;
- Ferrero, 0,75;
- Nastase, 0,658
- A. Gomez, Panatta e Gerulaitis, 0,656;
- Federer e Connors, 0,653;
Il vertice è molto più appiattito in questo caso, con Rafa addirittura al terzo posto e superato non solo da Borg ma anche da uno che ha vinto tanto di meno come Courier, mentre fanno capolino anche gente che non ha mai vinto Slam sul rosso (Andrei Medvedev e Vitas Gerulaitis) con punteggi più alti rispetto a quelli di Federer o di Nole – il serbo è addirittura fuori dai primi 15.
Per tirare le somme di due classifiche molto diverse fra loro, si può guardare al piano cartesiano seguente (media in ascissa, totale in ordinata). Come anticipato, al punteggio totale viene attribuito un valore superiore, e infatti qui possiamo vedere il rapporto fra i due valori per i giocatori con un punteggio di almeno 5,75, in totale 26 (sembrano due numeri scelti a caso, ma era il massimo di giocatori che potesse essere inserito senza rendere il piano cartesiano del tutto inintelligibile):
Va sottolineato che il valore medio per i giocatori con un valore maggiore o uguale a 3 è di 8,53 punti (7,625 se escludiamo Nadal) e 0,644 di media.
Altra digressione (messa in questo punto perché altrimenti si sarebbe arrivati alle cifre fra un paio di secoli). Al di là dell’attualità del tema data dall’avvicinarsi di Parigi, la terra si presta particolarmente a questo tipo di analisi in quanto superficie estremamente circoscritta da un punto di vista cronotopico e tecnico, ma allo stesso tempo varia in termini di allori: la stagione dei quattro grandi tornei su terra, infatti, si consuma sostanzialmente in tre Paesi (Francia, dato che il Country Club monegasco si trova tecnicamente in terra gallica, e Italia, più la Spagna che ha sostituito la Germania) nel giro di meno di due mesi (scappatella lisergica nord-americana di cui sopra a parte), proponendo condizioni climatiche spesso molto simili al netto dell’eccezione dell’alta quota di Madrid che favorisce un gioco più aggressivo.
Inoltre, i tre Masters 1000 su terra usano tutti palline Dunlop, quindi con le medesime caratteristiche – il Roland Garros ha usato Dunlop fino al 2010, passando poi a Babolat e, da quest’anno, a Wilson. Non solo il picco della stagione su terra è condensato, ma la superficie stessa propone (oggi magari di meno, per via del passaggio a palline Type 1 del 2002 che ha velocizzato il gioco avvicinandolo a quello delle altre e favorendo attaccanti che necessitano di un attimo in più per sbracciare, epigoni di Kuerten come Wawrinka o Thiem) un modo di intendere il tennis peculiare, fondato su accorgimenti tattici specifici e su una preparazione fisica talmente avanzata che Gianni Clerici ha ribattezzato il suo torneo principale “il Giro di Francia del tennis”.
Anche la stagione su erba si compie in una bolla (termine di moda) temporale e geografica, ma ha un solo grande evento, Wimbledon – come noto, tanti giocatori di alto livello, inclusi Nadal e Djokovic, tendenzialmente non fanno una preparazione sull’erba, anche se il serbo ha lievemente invertito la tendenza negli ultimi anni nei momenti in cui aveva bisogno di punti e partite, giocando a Eastbourne nel 2017 e al Queen’s nel 2018.
Di contro, il cemento si gioca ovunque, tutto l’anno, su superfici anche molto diverse fra loro, e con palline che vanno da Dunlop a Wilson a Head Penn, ed è quindi difficile: a) creare una classifica unitaria, e b) creare una classifica interessante, visto che la frequenza dei tornei sul duro (si può quasi dire che sia la superficie attraverso la cui frequenza e medietà definiamo le caratteristiche peculiari delle altre) fa sì che sia lì che quasi tutti i migliori portano a casa la maggior parte dei propri punti – la classifica dei migliori sul cemento si chiama ATP Ranking.