Non si può restare indifferenti a quanto accaduto negli Stati Uniti lo scorso maggio (anche se la questione è diventata di dominio pubblico in giugno) a seguito del brutale assassinio di George Floyd da parte di un poliziotto che era passato indenne attraverso più di un comportamento violento, disumano e razzista. “I can’t breathe” è diventato il banner di sfilate, più o meno pacifiche, in giro per il mondo, e che hanno visto coinvolta anche la recente campionessa dello US Open Naomi Osaka, ovviamente parte dei non violenti. Quanto accaduto a Minneapolis ha scosso l’opinione pubblica mondiale, non solo quella degli Stati Uniti. Tutti noi sappiamo bene che il razzismo c’è ancora, anche se non più come ai tempi della schiavitù. La questione razzismo non sopravvive soltanto nell’America di Trump e non riguarda soltanto i poliziotti violenti e aggressivi di quel Paese. E neppure soltanto i tifosi negli stadi di calcio che fanno “buuuh” al calciatore avversario che ha la pelle scura.
Un sito di tennis non è il luogo più adatto per addentrarsi nelle complesse implicazioni di un tema come quello del razzismo. Ci sono sedi e commentatori assai più autorevoli. In questa sede basterebbe intanto – e non solo per aver pubblicato su Ubitennis le reazioni di Osaka, Gauff e Auger-Aliassime – ammettere che l’atteggiamento più inaccettabile e misero che possiamo manifestare è quello di dire ‘il problema non esiste, gli si sta dando eccessivo peso‘.
Il problema esiste eccome ed è sotto gli occhi di tutti. Ricordo le forche caudine – perché al tennis mi voglio circoscrivere – attraverso cui sono dovuti passare tanti tennisti afroamericani. Penso alla storia di Jimmie McDaniel – il più forte tennista nero prima della seconda guerra mondiale, mancino d’un metro e 95, quattro volte campione dei tornei “segregati per colored“, l’American Tennis Association – cui fu straordinariamente “permesso” di affrontare il primo vincitore Slam, il bianco dai capelli rossi Don Budge, in un match di esibizione il 29 luglio 1940. Perse 6-1 6-2, ma tutta l’America fu emotivamente interessata a quell’incontro.
Anche perché Jimmie, il cui padre era stato un giocatore di baseball della “Negro League“, aveva avuto un passato burrascoso: a 18 anni aveva messo incinta una ragazza di 15 ed era finito per due anni in un riformatorio. L’ex olimpionico nero Ralph Metcalfe (quattro medaglie olimpiche compresa la staffetta 4×100 a Berlino con Jesse Owens sotto gli occhi rabbiosi di Adolf Hitler, correva i 100 in 10’3” e i 200 in 20’6”) gli aveva fatto avere una borsa di studio per l’atletica alla Xavier University di New Orleans, ma Jimmie era troppo più portato per il tennis.
E penso pure a Oscar Johnson, di Long Beach in California, primo afro-americano a vincere un campionato nazionale (The National Parks Junior Singles) a 17 anni, nel ’48. È morto nel marzo dello scorso anno (2019). Aveva ricevuto un’onorificenza nella Hall of Fame di Newport nell’87, ma è stato “enshrined” nella Black Hall of Fame soltanto nel 2010. E Robert Ryland, che nel 1946 fu uno dei primi due neri a gareggiare nel campionato NCAA di tennis. “Abbiamo dovuto fronteggiare moltissimi problemi a causa della discriminazione razziale in questi giorni – raccontava Ryland -. Quando ci mettevano in viaggio per giocare a Purdue o nell’Indiana, noi eravamo soliti mandare i nostri compagni bianchi nei ristoranti, dove loro mangiavano tranquillamente, a prendere dei panini che noi avremmo mangiato in macchina“.
Una decina d’anni dopo ecco Althea Gibson che prima di poter varcare i cancelli dei tornei americani dovette passarne di ogni tipo, di Arthur Ashe che vinse a Forest Hills nel ’68 in quel club di West Side Tennis in cui non avrebbe potuto mettere piede, sette anni prima di diventare il primo afro-americano a vincere a Wimbledon. Ricordava nell’81 Ashe: “Non puoi paragonare il tennis al football o al basketball. Quando Jackie Robinson infranse nel ’47 la frontiera del colore della pelle con i Brooklyn Dodgers, c’erano decine di buoni giocatori di baseball nelle Negro League che erano pronti a seguirne l’esempio. Quando Althea Gibson, la prima donna nera importante nella storia del tennis, vinse il titolo nazionale sull’erba di Forest Hills nel ’57 e nel ’58 non aveva alle spalle alcuna riserva di talenti neri che aspettasse dietro alla porta per varcare la stessa soglia. I neri non si identificano in nessun modo con questo sport, né dentro né fuori dal campo“.
E nell’87 sempre Ashe: “Ciò di cui abbiamo bisogno è uno Yannick Noah americano. Sotto molti aspetti io non ero un grande modello da seguire. Abbiamo bisogno di qualcuno che abbia un gusto e giochi un tennis sfrontato. E questi dovrebbe comportarsi come Julius Erving”.
Ma anche Zina Garrison e Lori McNeil, cresciute tennisticamente nei parchi pubblici del Texas, ne hanno raccontate di tutte e di più. Ora io non ho tempo per riaprire le loro autobiografie che ho nella mia biblioteca per ricostruire le loro storie quasi incredibili, certo imbarazzanti per qualunque essere umano dotato di un minimo di consapevolezza e sensibilità. Perfino le due sorelle Williams non hanno avuto vita facile, sebbene l’essersi rivelate super-campionesse già a 17 anni abbia contribuito all’apertura di qualche porta in più… ma Richard Williams non si è mai fidato troppo di tanta acquiescenza. Certo esagerando, ma lui era un personaggio così, quando disse: “È il peggior atto di pregiudizio razziale da quando hanno ucciso Martin Luther King”, sbottò polemizzando contro chi aveva seppellito di ‘buuh’ Serena Williams durante la finale 2001 di Indian Wells. La folla schernì anche Venus e il padre quando i due si sedettero fra gli spettatori, e le sorelle decisero di boicottare il torneo per ben 14 anni (15 anni Venus).
Mi perdonerete allora, spero, se saccheggio rapidamente anche una serie di dichiarazioni raccolte in un libro, “Ipse Dixit” di Vincenzo Spina, che a suo tempo ha raccolto tante frasi pronunciate da tennisti, tenniste e personaggi del mondo del tennis. La maggior parte – lo avete già visto – sono di quel grande uomo, prima ancora che grande campione, che è stato Arthur Ashe, nonché di quel giovane camerunense, Yannick Noah, che fu proprio Arthur a scoprire nel corso di un viaggio fatto in Africa. Di Arthur Ashe, il delegato statunitense alle Nazioni Unite, di una trentina di anni fa ebbe a dire: “Arthur Ashe ha preso il fardello della razza e lo ha indossato come un mantello di dignità“.
Ecco allora alcune frasi di Ashe: “Grazie alla combinazione di una serie di fattori, i neri americani oggi rappresentano la sostanziale maggioranza tra gli atleti americani negli sport maggiori. Questo non è avvenuto nel tennis perché questo sport è stato organizzato in modo tale da scoraggiare la partecipazione dei neri“ (1988).
“Dajè Arturooo!” ricordo che un tifoso romano gridò al suo indirizzo mentre Arthur si esibiva al palasport dell’EUR, ma quello non era uno sfottò come quelli dell’ineffabile Ilie Nastase, che lo chiamava irridendolo “Negroni” senza che Arthur se la prendesse come invece fece a Stoccolma al Masters di fine anno 1975, sotto i miei occhi, quando Ilie prese a protestare per la luce insufficiente della Kungliga Halle dicendo spudoratamente: “Ashe viene a rete e in questo buio non riesco a vederlo!“. Disse quella e numerose altre finché la partita fu addirittura sospesa. Ashe, furibondo come non lo avevo mai visto, se ne uscì dal campo. Prima gli fu data partita persa, poi la fecero perdere giustamente a Nastase. Nastase era un tipo che fuori dal campo scherzava, anche pesantemente, con tutti: se incontrava un sudafricano, Drysdale, McMillan, lo salutava dicendogli “Salve Razzista!”.
Di Arthur ricordo questa profezia: “È più facile che il prossimo vincitore nero di un Grande Slam sia una donna piuttosto che un uomo. I migliori atleti neri maschi preferiscono ancora giocare a basket, football e correre in una pista d’atletica (1992)”. Le due Williams, che all’inizio di carriera i giornali americani chiamavano “Ghetto’s sisters“, l’hanno confermata, altro che se l’hanno fatto! 23 Slam Serena, 7 Venus…
Ma già Zina e Lori, proprio a Wimbledon dove la prima ha raggiunto una finale e la seconda riuscì ad eliminare Steffi Graf al primo turno, avevano sfiorato il grande exploit, mentre fra gli uomini solo Malivai Washington, finalista nel 1996 dopo aver rimontato da 1-5 Todd Martin ma poi battuto da Richard Krajicek, è stato l’altro unico tennista di colore capace di sfiorare una vittoria Slam. Washington ebbe a dichiarare: “È molto difficile per un ragazzo nero identificarsi con un tennista bianco. Voglio dire… con chi sarai più portato a identificarti, con Michael Jordan e Walter Payton oppure con Boris Becker e Ivan Lendl?”.
Nel 2006 James Blake (oggi direttore del torneo di Miami, padre afroamericano, mamma inglese), con il suo best ranking di n.4, è stato il tennista di colore più forte del terzo millennio assieme a Tsonga e Monfils. Althea Gibson disse: “Nello sport sei più o meno accettata per ciò che fai che per ciò che sei”. E anche: “No, non mi considero una rappresentante della mia gente. Io penso a me stessa e a nessun altro…“. Le avevano chiesto se fosse fiera di essere paragonata al giocatore di baseball Jackie Robinson come rappresentante di spicco della sua razza, dopo che lei aveva vinto Wimbledon nel 1957. “Non sono una persona consapevole dal punto di vista razziale… Sono una giocatrice di tennis, non una giocatrice di tennis negra“.
Ancora Ashe: “Ricordo che c’erano regole destinate soltanto ai ragazzi neri del Sud. Quando hai dubbi su una palla (mio ricordo personale: negli USA fino al college ci si arbitrava da soli e io nella mia esperienza universitaria a Tulsa Oklahoma ricordo personalmente l’imbarazzo nel dover giudicare certi servizi fulminanti che sul cemento non lasciavano alcun segno. Non volevi passare da ladro, ma nemmeno regalare punti; nota di Ubs) considera buono il colpo del tuo avversario di pelle bianca. Se stai servendo prima del cambio campo… alla fine raccogli tutte le palle che si trovano nella tua metà campo e consegnale in mano al tuo avversario quando lo incroci. Il dottor Robert Walter Johnson, il nostro coach, sapeva che noi ci stavamo inoltrando in un territorio che spesso ci era ostile e voleva che il nostro comportamento fosse irreprensibile. Ci sarebbero voluti anni prima che io riuscissi a superare un simile pedaggio emotivo fatto di ira repressa e frustrazione!“.
Una volta Ashe, che io ho avuto ospite al mio torneo di Firenze e per la cui splendida, deliziosa moglie, fotografa professionista, avevo organizzato una mostra di fotografie, disse: “Ogni giorno chiudo gli occhi e prego che le persone non siano crudeli con i miei figli come lo sono state con me“. “Quel che mi fa infuriare di più è vedere un qualcuno della mia città, Richmond (Virginia) avvicinarsi a me in qualche altra città del mondo per dirmi: ‘Ti ho visto giocare a Byrd Park, quando eri un bambino’. Nessuno può avermi visto giocare a Byrd Park, perché quando ero bambino a Byrd Park potevano entrare solo i bianchi!“.
E Yannick Noah, ultimo francese a vincere il Roland Garros nel 1983, ma nato a Yaoundè nel Camerun nel 1960, accenna ad un razzismo diverso: “Non ho mai avuto problemi ad essere nero, ma la federazione del Camerun non mi ha mai supportato. La ragione? Mia madre era bianca. Non sono ambasciatore di alcuna razza e di alcun Paese proprio per quello: con mia madre bianca e mio padre nero… dentro di me non mi sento bianco o nero. Penso di aver fatto più per la gente vincendo il Roland Garros di quanto avrei potuto fare andando in Sudafrica, durante il regime di apartheid, a fare conferenze. Può darsi che un giorno, verso i 35 anni, cambierò idea, ma non credo”.
Però quando Yannick Noah decise di portare i capelli con i dreadlocks (1983) si accorse che in Francia i bianchi facevano più fatica a riconoscerlo e ad accettarlo: “D’improvviso non ero più un giocatore di tennis. Ero nero e non ero nessuno. Le reazioni della gente diventarono completamente differenti. Nulla di terribile, nulla che potesse scatenare una rissa, semplicemente differenti. In effetti non ho mai avuto alcun problema nell’essere un nero qui. È come dice Larry Holmes: se sei un nero e hai i soldi, allora non sei nero“.
Però, come ha raccontato Felix Auger-Aliassime, “se guidi una Mercedes di lusso, i poliziotti tendono a fermarti, come hanno fatto con mio padre, perché pensano che tu possa averla rubata”.
L’ex giocatrice Katrina Adams, best ranking n.67 WTA, ex semifinalista di doppio a Wimbledon nell’88 con Zina Garrison, dal 2015 al 2018 è stata la prima presidente di colore dell’USTA, la federtennis americana, nonché la prima ad essere stata riconfermata – contro tutte le regole federali prima esistenti – dopo un biennio di presidenza.
Soprattutto, però, il tennis mondiale adesso ha Naomi Osaka a fare da portavoce per questi temi. La giapponese, attualmente N.3 WTA, è diventata rapidamente una delle star dello sport internazionale, diventando anche la donna più pagata davanti a Serena Williams con guadagni stimati per 37,4 milioni di dollari. Col passare del tempo è anche diventata una delle atlete più esposte sul fronte delle lotte contro il razzismo e la police brutality, partecipando, come scritto, alle proteste di Black Lives Matter per la morte di George Floyd a Minneapolis e St. Paul. La giocatrice ha deciso di spiegare la sua posizione con una lettera scritta per Esquire: “Mi è venuta una fitta al cuore guardando l’agghiacciante video dell’assassinio e della tortura di George Floyd da parte di un poliziotto e di tre suoi colleghi. Mi sono sentita chiamata ad agire, il troppo è infine stato troppo”.
Nelle sette partite giocate a New York, Osaka ha omaggiato sette diverse vittime della polizia scrivendo i loro nomi sulla sua mascherina – il giorno della finale ha “indossato” quello di Tamir Rice, un dodicenne di Cleveland ucciso da un agente per essersi messo a giocare con una pistola finta in un Rec Center. “George è stato assassinato da uomini pagati per proteggerlo, e per ogni George c’è una Brianna, un Michael, un Rayshard”. In più, qualche giorno prima dell’inizio dello Slam Naomi si è ritirata prima di giocare la semifinale del torneo di Cincinnati (anch’esso disputatosi a Flushing Meadows) in sostegno alla scelta dei giocatori dei Milwaukee Bucks di boicottare una partita dei Playoff NBA in seguito alla sparatoria che ha visto coinvolto Jacob Blake a Kenosha – gli organizzatori hanno poi cancellato tutte le partite di quel giovedì, riammettendola il giorno successivo.
Quella di Osaka non è una posizione convenzionale a livello di retaggio culturale. Recentemente il Guardian ha notato che in Giappone la tre volte campionessa Slam non è universalmente amata in quanto hafu, una persona con un genitore nipponico e uno no (il padre è di Haiti): secondo alcuni comici locali, Naomi si è “scottata al sole” e avrebbe bisogno “di un po’ di candeggina”.
Lei però si dice consapevole del fatto che è solo una piccola parte dei suoi connazionali a discriminarla (era stata scelta come volto di Tokyo 2020 in fondo) ed è arrivata ad accettare il proprio background multietnico e cosmopolita per farne un veicolo di cambiamento: “Devo dire che sono anche orgogliosa del ruolo, seppur piccolo, che ho avuto nell’abbattere alcuni preconcetti – ha scritto ancora su Esquire – Mi esalta l’idea che, nella sua classe in Giappone, una ragazzina di razza mista possa essere orgogliosa quando vinco un torneo dello Slam. Spero che il cortile della scuola possa essere un luogo più accogliente per lei, ora che ha un modello di riferimento, e spero che possa essere orgogliosa di chi è… e, perché no?, sognare in grande”.
Allo stesso tempo, tuttavia, ha ammesso che parlare di razzismo nel suo Paese è sempre stato difficile, e forse è per questo che Naomi Osaka non è sempre stata un’attivista, ma lo è diventata solo ultimamente. Molti la ricordano mesta e silente durante la sfuriata di Serena Williams contro Carlos Ramos, tacciato di sessismo per averle comminato due penalty points e chiamato “ladro” dalla statunitense. Serena superò certamente il limite quel giorno, ma va anche ricordata la vignetta dell’Herald Sun, il quotidiano australiano che la ritrasse con labbra gonfie e sporgenti mentre schiacciava la racchetta, il giudice di sedia alle sue spalle che chiedeva a Osaka “non puoi lasciarla vincere?” Ah, quasi dimenticavo, Osaka era bionda e caucasica in quel fumetto.
Se però questo episodio ci dice quanta strada ci sia ancora da fare, ci dice anche quanta ne sia stata fatta, perché una finale fra atlete di colore sotto l’egida (all’epoca) di una presidente federale di colore ci dimostra che i tempi in cui si doveva lasciare il punto all’avversario bianco siano ormai distanti nel tempo e nella psiche collettiva. Paradossalmente, l’esito sfavorevole a Serena della scenata di quel giorno è la riprova del fatto che torto e ragione possono essere valutati senza preconcetti, almeno nel tennis – Madison Keys, Frances Tiafoe, Felix Auger-Aliassime e Sloane Stephens ne sono la prova vivente.
Per quanto riguarda i problemi sociali più ampi, la piattaforma mediatica di Naomi Osaka, delle sorelle Williams e di Katrina Adams, personaggi di indubbio carisma, è più potente di qualsiasi megafono Arthur Ashe abbia mai avuto a disposizione.
Insomma, se le cose non cambieranno definitivamente anche grazie alla loro influenza e al loro contributo, allora forse non cambieranno mai. E sarebbe una clamorosa sconfitta per tutto il genere umano.