“Ho trovato “IU. ES. EI, dove sei (e pure l’Australia)?” un articolo affascinante”: sono le parole di Mark Winters, giornalista e allenatore statunitense che per questo motivo ha deciso di scrivere un suo contributo che abbiamo tradotto in italiano a beneficio dei lettori di Ubitennis.
[…] Trovo che sia un articolo affascinante soprattutto a partire dalla conclusione: “… la visione che si trae dai numeri che abbiamo presentato è parziale dato il campione limitato preso in esame – speriamo che il nostro lavoro possa almeno offrire qualche interessante spunto di riflessione”. Ubaldo e Steve Flink sono amici di tennis di lunga data; proprio perché lo sono, mi sento a mio agio nell’offrire “… alcuni interessanti spunti di riflessione”.
Come avrete potuto constatare, la domanda che è stata posta riguardo al declino degli Stati Uniti e dell’Australia nel tennis maschile è tremendamente complessa e non ci sono risposte “predefinite” su ciò che ha causato questo crollo. Inoltre, come detto da voi, i numeri non raccontano l’intera storia di ciò che è accaduto. Ho inviato il vostro articolo a un amico australiano, a sua volta di lunga data, che ha un passato da giocatore ma, cosa più importante, è stato parte del mondo del tennis “Down Under” per anni, e conosce a fondo il sistema Tennis Australia. Ha fornito alcuni spunti e io li offrirò in base alle mie esperienze con l’USTA. (Il mio background è il seguente: sono stato un giocatore dilettante; ho lavorato come allenatore della squadra nazionale maschile giovanile e medico specialista; e sono stato giornalista di tennis per cinquant’anni).
Sia negli Stati Uniti che in Australia, le federazioni nazionali di tennis hanno svolto un lavoro orribile. Cambiano continuamente rotta per quanto riguarda i piani e la direzione da seguire, il che si traduce in qualcosa di più di un messaggio ambiguo, molto simile a quello di un GPS che ti suggerisce il “ricalcolo” o “di fare inversione a U”. La politica e l’ego si aggiungono regolarmente per confondere ulteriormente la situazione. Questo è un paradosso visto nella maggior parte delle organizzazioni sportive, ma nel mondo del tennis la situazione è peggiore perché quelli che ricoprono ruoli di leadership, per la maggior parte, condividono una caratteristica: sono stati dei giocatori.
In generale, solo perché un individuo ha raggiunto lo status di élite in campo non significa che abbia la visione ad ampio raggio che è necessaria (essenziale è probabilmente una parola migliore) per creare programmi di sviluppo significativi e graduali. In qualità di responsabili (e lo stesso vale sovente quando ex-giocatori cercano di diventare allenatori), è difficile per loro andare oltre il loro modo di pensare lineare che è stato così utile quando erano in campo. Per loro il futuro era… la prossima partita, il prossimo torneo e poco oltre. Più precisamente, le federazioni “non creano un giocatore…”, ma dovrebbero offrire opportunità di viaggio e, cosa più importante, supporto finanziario, ma nel complesso queste organizzazioni devono accompagnare un giovane dalle fasi iniziali della carriera quando sta cercando di ottenere i primi punti necessari per avere un ranking ATP o WTA.
Questo è il motivo, e mi rendo conto che è così logico che spesso viene ignorato, per il quale gli allenatori locali, che comunicatori prima che insegnanti, sono così essenziali. Se sono in grado di stabilire solidi rapporti di lavoro con i responsabili della supervisione dei giocatori a livello nazionale, si ottiene un risultato vantaggioso per tutti… ma questo accade raramente per una serie di motivi dovuti alle differenze di personalità.
Come ha notato il mio amico, “è anche incredibile quanto le persone possano essere ingenue. Gli allenatori si mettono in contatto con un valido prospetto e poi lasciano passare molti anni, finché non è troppo tardi”. È come un’altalena, in realtà un metronomo, che ticchetta incessantemente. Alcuni allenatori ricevono complimenti e col tempo sviluppano un seguito simile a un culto. Altri, che non sono abili promotori di loro stessi, ottengono pochi riconoscimenti, anche se effettivamente potrebbero essere degli allenatori migliori rispetto ai primi. Ma, come si suole dire, “le menzogne vendono…”.
Il mio amico ha aggiunto: “L’Australia è in una situazione di maggiore difficoltà nel panorama mondiale a causa della distanza“. C’è anche il fatto che “gli europei sono meno inclini a pensare a sé stessi come truppe di un movimento sportivo nazionale, anche se un’eccezione è costituita dalla Francia. I giocatori del loro Paese si vedono come avversari, non come ‘il nostro numero uno al mondo’ di domani, come si è continuato a chiamare Ash Barty durante tutto lo scorso anno. Cioè, fino al momento in cui non è riuscita ad andare in finale nel ‘nostro’ torneo (l’Australian Open) come tutti noi australiani speravamo”.
Negli Stati Uniti si possono utilizzare parole diverse ma il problema è lo stesso. Non appena ottengono qualche vittoria, i giovani vengono battezzati “il prossimo…”. La “benedizione”, per così dire, si traduce in analisi incredibilmente minuziose (in entrambi i Paesi) dopo un paio di buone prestazioni nei tornei. Coloro che sono coinvolti in questa “danza” cercano di tenere il passo, ma la musica cambia costantemente, e quindi le loro coreografie diventano confuse. Oggi, e sempre di più, vi è un ulteriore problema. L’allenatore del “fenomeno” è un genitore. Avendo fallito in uno sport competitivo, cerca di avere “una nuova carriera” come allenatore ma ha poca esperienza nel tennis giocato. Inoltre, essere genitori di un bambino non garantisce che l’individuo sia consapevole del bilanciamento emotivo che rappresenta una parte complessa dell’essere un allenatore/papà o un’allenatrice/mamma.
Come i lettori sanno, il tennis è uno sport complesso. Non solo un individuo deve avere qualche capacità atletica, ma l’abilità deve essere supportata da qualcuno (spesso la famiglia) e rafforzata dalla fiducia in sé stessi, insieme all’audacia o alla testardaggine (o entrambe). Forse ancora più importante è avere la capacità di affrontare la sconfitta e continuare a fare progressi. Per via di questi e di altri requisiti, il tennis negli Stati Uniti e in Australia non ha trovato atleti straordinari. Nella maggior parte dei casi vengono fuori, e parlo in senso ampio, dei “muratori” ma non degli “artisti”. (Sì, so che Federer, Nadal e Djokovic sono “creativi”, ma uno come Schwartzman è, e questo non è per essere offensivo, un ottimo “muratore”).
Un altro problema importante è l’attrattività. Con tutte le possibilità a livello sportivo presenti negli Stati Uniti e in Australia, perché il tennis dovrebbe essere particolarmente accattivante? È vero, è uno sport che si tramanda in famiglia, quindi diventa regolarmente parte del DNA dei suoi membri. Tuttavia, ci deve essere qualcosa di più per stimolare l’interesse per lo sport e, come ho sottolineato sopra, entrambe le federazioni hanno fallito quasi completamente nella comunicazione.
Come avete detto voi nel vostro articolo: quanto potrà essere affascinante John Isner? Sfortunatamente, lavorando attraverso le campagne sui social media, che sono notoriamente brevi, gli sforzi per richiamare l’attenzione sui giocatori sono diventati semplici notifiche. Nel vostro articolo, avete parlato di potenziali talenti come Brandon Nakashima e Rinky Hijikata e della loro posizione di “giovani promesse”, ma nessuno dei due organi di governo ha compiuto un nuovo sforzo per richiamare l’attenzione sul futuro del tennis. Vende ancora Lleyton Hewitt…
Il mio amico ha sottolineato: “Il ‘boom’ del tennis europeo ha coinciso con il crollo della cortina di ferro che ha creato una maggiore libertà per un vero mix competitivo”. Il tennis era un’attività della borghesia che ora era aperta anche al “popolo”. Cheryl Jones, mia moglie, che è stata una giocatrice molto rispettabile da giovane, ha scritto per anni di tennis (spesso per Ubitennis). Ha intervistato e scritto numerose volte su Jennifer Capriati. Uno dei commenti più eloquenti di Capriati è stato “avere il fuoco dentro per avere successo”. A molti giocatori statunitensi questo manca. Parlano di impegno, di quanto lavorano duramente, ma il più delle volte sono solo chiacchiere. Semplicemente non hanno “il desiderio ardente” perché non c’è davvero l’interesse o ispirazione di diventare qualcosa di più.
Qualche atleta vince qua e là è abbastanza per mantenere, così pensano queste persone, lo status di tennista. Per non esagerare “filosoficamente”, il tennis non consuma le loro anime. Ci giocano, si divertono e sono ricompensati dai loro risultati, ma quando viene chiesto loro di guardarsi dentro e rispondere a cosa significa essere un giocatore, lo si quantifica in vittorie e sconfitte… non in espressioni piene di emozioni. Voglio ringraziare nuovamente il vostro sito, e soprattutto l’autore Roberto Ferri per aver scritto il primo articolo. Ha suscitato molte riflessioni e ne sono grato, e spero che questo pezzo possa fare lo stesso.
Traduzione a cura di Giuseppe Di Paola