Dicono di te che sei un gioco anziano. Che devi svecchiarti. Che qualcosa deve cambiare perché la concorrenza lo impone. Bisogna essere aziendalisti, veloci e performanti. Bisogna abolire i vantaggi, troppo vantaggiosi, i giudici di linea, troppo giudicanti, i set a sei, troppo multipli di tre.
Dicono di te che cinque set sono troppi, che sei uno sport per pensionati nel deserto di Indian Wells, con il tempo a disposizione per restare attaccati alla tivvù cinque ore: e così scopro che a tredici anni io ero già in pensione mentre consumavo i pomeriggi di maggio nei rantoli di Bisteccone. Poi gli stessi che se la prendono con i tuoi quinti set “signor Malaussene”, quando vogliono rivedersi una partita di quelle che conta, si mettono davanti a una bollicina e ad un camino scoppiettante, saltano i primi quattro ed arrivano direttamente al finale.
Dicono di te che il tuo problema è di interpreti. Che c’è stata una weak era troppo weak, poi una strong era troppo strong, mentre esaltano i 57 Slam diviso per tre soli attori. Altri affermano che il tuo problema sono proprio 57 Slam diviso tre, senza il resto di due.
Dicono che non si può giocare a distanza di 23,77 metri senza contagiarsi. Che le palline sono tonde come il Sars -Cov2, che quei nippoli di feltro che si formano dopo qualche colpo ricordano le proteine spike. Poi si esce dal campo dopo avere giocato contro Federer e Nadal, e il virus della loro immensità se ne sta per fatti suoi, non infetta, non si propaga, primo esempio di virus asociale della storia, che lo si nota di più se alla festa non ci viene.
Dicono di te che le tue partite le vendano ai mafiosi russi per le scommesse, che allenatori aguzzini impongano alle giovani tenniste partite nel loro letto, che è meglio giocare alla playstation, che quando quello lì giocava i treni svizzeri arrivavano in orario, e che nello stesso spazio in cui si gioca in due tanto vale tirare nuove linee a terra e fare un campo di calcetto per 10 portafogli.
Dicono di te ma tu non parli. Né immagino cosa avresti da dire. Né immagino che voce hai. Del resto chi ricorda la voce dei sogni della propria infanzia? Gli odori, quelli sì, restano impressi. Ma le voci durano il tempo di un’eco.
Forse per parlare grugnisci come tanti dei tuoi, o forse semplicemente fai “pof, pof” con la voce che ti ha donato Adriano Panatta in un film. Forse sei muto, e in questa sera di Natale tocca a me, umilmente, darti voce.
E allora dico di te che non c’è alcuna sensazione nell’universo tattile come quella del giocare un tuo colpo. Si può infilare una mano in un secchio di lenticchie, accarezzare il miglior gatto presente sul mercato, ma che la palla finisca in rete o sfacciatamente si stampi all’incrocio delle righe, un brivido ineguagliabile percorre i nervi, un’atavica fibrillazione si trasmette dal braccio ai recettori del piacere nel cervello.
Dico di te che sei geometria morbida, che nulla in te è perfettamente retto, tranne le linee che servono solo al punteggio. Dico che sei un insieme di parabole e di iperboli, che tracciano il campo, come orbite intorno a quel sole invisibile che ognuno tiene stretto per sé.
Dico che non esiste, come te, simile tortura per la mente. Che non esiste stretta più forte sui muscoli e sui tendini della tua paura. Dico di te che continuamente mi pento di giocare al tuo gioco, anche solo guardando e amando chi lo fa meglio di me. Dico di te che mi tormentano i tuoi e i miei fantasmi, ma che poi non vedo l’ora di ripiombare in quell’imbuto, fatto al contempo di paralisi e tachicardie.
Quel che è anziano non sei tu, ma è la voglia di cambiarti. Quel che è anziano, oramai, è la voglia di farti diventare altro. Il desiderio di cambiarti è solo frutto della vanità dell’uomo, che è sentimento antico. Il desiderio di cambiarti è la vanità di chi non sa stare alle tue regole, di chi non ha nomi sui trofei e che con le tue regole ha sempre perduto: così se ne inventa di nuove sperando di vedersi su qualche targhetta commemorativa.
Non cambiare, o almeno non lo fare più. Già hanno cosparso di colla vinilica i prati, dotato le racchette di corde di carta vetrata, riempito i campi di braccia rubate al basket e alla pallavolo. Fermati adesso, e magari (siamo a Natale) fai anche qualche passetto indietro. Sei un figlio che cresce davanti agli occhi di un padre allibito, alla ricerca disperata di un tasto per metterlo in pausa e averlo in eterno tutto per sé.
Questa vorrei fosse la tua voce, il tuo canto di Natale. Magari mi sbaglio e hai tutt’altre intenzioni. Hai già dimenticato la Coppa Davis, e presto ti faranno persino giocare a tempo, con il jolly che vale tre punti, la carta che toglie un servizio all’avversario, stai fermo un turno, fai la penitenza, vai in prigione senza passare dal “via”. Forse, ben presto, di quel che conosco resterà solo un ricordo, un odore, una foto tutti a tavola senza il limite dei sei.
O forse ti rivelerai un abile Gattopardo. Tutto deve cambiare perché tutto resti uguale. Il senso del colpo, la geometria nel campo e la fatica della mente. Forse vanno solo impacchettati in confezioni sempre diverse, perché almeno esse non scompaiano. È difficile dirlo, è impronosticabile. Nel dubbio sotto al tuo albero troverai questo impossibile augurio. Resta.
Buon natale caro Tennis, e felice anno vecchio.