L’Australian Open 2021 è stato il torneo della quarantena, degli allenamenti nelle camere d’albergo, di Naomi Osaka e Novak Djokovic, ma è stato anche il torneo dei guai muscolari all’addome. Dopo aver sollevato il trofeo, Djokovic ha dichiarato in conferenza stampa di aver convissuto con uno strappo al muscolo obliquo, così come Karolina Muchova – eliminata in semifinale da Brady – ha raccontato di aver giocato con uno strappo persino più grave di quello di Nole. Sono stati meno fortunati Casper Ruud e Matteo Berrettini, che a causa di infortuni addominali hanno dovuto rispettivamente abbandonare a metà l’ottavo con Rublev e lasciare strada a Tsitsipas prima di scendere in campo. Nel frattempo, il tennista italiano ha dovuto rinunciare ad altri due tornei ai quali aveva intenzione di partecipare (Rotterdam e Marsiglia) per le conseguenze dell’infortunio.
Con l’obiettivo di fare un po’ di chiarezza sulla natura e sulla frequenza delle lesioni muscolari, in particolar modo quelle a carico dei muscoli addominali, abbiamo avviato una piccola indagine tra i professionisti del settore. Abbiamo ascoltato i pareri di medici, fisioterapisti e osteopati per cercare di rispondere a queste domande:
- Cosa sono e come vengono classificate le lesioni muscolari?
- In quale circostanza è corretto parlare di strappo muscolare?
- Quanto è frequente, per un tennista, infortunarsi all’addome?
- Quante sono le possibilità di competere ad alti livelli con una lesione muscolare?
L’argomento è vasto e cercheremo di affrontarlo dalle angolazioni più utili a fare chiarezza. La prima puntualizzazione riguarda la classificazione delle lesioni muscolari, sulla quale c’è molta confusione – una confusione che viene spesso alimentata dalle affermazioni poco consapevoli dei ‘non sanitari’, compresi dunque gli stessi atleti e noi giornalisti. Il parere unanime degli esperti è il seguente: in assenza di un referto o dell’interpretazione di un medico, quello che dice un atleta vale quel che vale – tendenzialmente abbastanza poco. Questo perché è già difficile dialogare tra addetti ai lavori, in ragione delle diverse classificazioni che sono state utilizzate nel tempo per diagnosticare le lesioni muscolari e delle diverse interpretazioni che è possibile dare di una stessa lesione.
Partiamo col dire che nel tennis ci si imbatte soltanto in lesioni muscolari di tipo indiretto – quelle dirette sono dovute a colpi o traumi contusivi, assenti in uno sport che non prevede contatti. Secondo una classificazione del 2013 (il Munich Consensus Statement), accettata in modo più o meno diffuso nella diagnostica sportiva, le lesioni muscolari sono classificate in quattro gradi di gravità crescente, i primi tre dei quali suddivisibili in due sotto-livelli:
- 1 (A e B)
- 2 (A e B)
- 3 (A e B; iniziano a comparire evidenze all’esame diagnostico)
- 4
In medicina non si parla dunque più di contrattura, elongazione, stiramento o distrazione/strappo. Il ricercatore in Medicina Fisica e Riabilitativa alla Sapienza di Roma Francesco Agostini ha definito lo strappo una definizione ormai un po’ ‘barbara’, con la quale siamo costretti a confrontarci perché è ancora molto utilizzata. Tendenzialmente, le lesioni di grado 1 e 2 non danno alcuna evidenza agli esami diagnostici, che per le lesioni muscolari sono l’ecografia e la risonanza magnetica. Seguendo la vecchia terminologia, corrispondono a contratture ed elongazioni – al limite stiramenti. Non è presente una lesione apprezzabile ma può comparire del dolore, comunque contenuto.
La situazione si complica dalle lesioni di terzo grado perché sopraggiunge una vera rottura delle fibre che corrisponde alle ‘vecchie’ definizioni di distrazione e strappo. Sia l’ecografia che la risonanza mostrano chiaramente l’interruzione delle fibre, che può riguardare una porzione meno (lesione 3A) o più ampia (3B e 4) del ventre muscolare, fino all’interruzione sub-totale che compromette quasi interamente la funzione del muscolo.
Occorre infatti specificare che nella maggior parte delle lesioni l’atleta si ferma per il dolore o per il timore di aggravare la situazione, piuttosto che per l’effettiva disfunzione del muscolo. Per arrivare al punto in cui un muscolo è sostanzialmente inutilizzabile serve che la lesione sia davvero molto grave, e questo succede pochissime volte.
Il professor Pier Francesco Parra, che da anni ricopre il ruolo di responsabile medico delle squadre italiane di Davis e Fed Cup, oltre che dei centri tecnici di Tirrenia e Formia, ci ha parlato di una classificazione in tre gradi nella quale il primo grado corrisponde ai primi due illustrati in precedenza, caratterizzati dall’assenza di evidenza diagnostica. I gradi 2 e 3 corrispondono dunque a distrazione e strappo, sebbene di strappo si possa già iniziare a parlare in caso di lesione di grado 2 ‘severa’. Giova infatti ricordare che l’ecografia – l’esame più indicato in caso di lesione muscolare – è operatore-dipendente, ovvero il referto dipende da chi svolge l’esame, e le diagnosi di uno stesso quadro clinico possono leggermente differire.
UNA LESIONE MUSCOLARE FA MALE – ANCHE ALL’ATLETA?
Ora che abbiamo risposto alle prime due domande dal punto di vista diagnostico, soffermiamoci su quello che ci interessa di più – come un paziente avverte una lesione muscolare e in particolar modo come l’avverte l’atleta, che in letteratura medica occupa una posizione a sé stante. L’efficienza muscolo-scheletrica di un atleta d’élite, infatti, non è paragonabile a quella di un comune mortale così come le metodiche riparative a disposizione, i tempi di recupero previsti e spesso anche la capacità di sopportare il dolore.
Prima puntualizzazione. Identificare il grado di una lesione non è sufficiente a determinarne il decorso clinico. Per una diagnosi completa, occorre valutare in quale misura il muscolo infortunato è implicato nel gesto sportivo dell’atleta e quali siano le altre caratteristiche della lesione. In particolar modo:
- localizzazione (la lesione può essere più o meno profonda, più o meno vicina al tendine)
- direzione (la lesione può essere longitudinale o trasversale)
Senza addentrarci troppo, possiamo dire che in linea di massima una lesione muscolare profonda è più grave, così come una lesione trasversale – che ‘interrompe’ il decorso delle fibre invece che andare nella stessa direzione – è molto più preoccupante di una longitudinale.
Ma a prescindere dal quadro clinico, una lesione muscolare ‘fa male’? Sì, sempre o quasi sempre. Dalla lesione di terzo grado in poi, il dolore è ben presente e di solito si accentua alla palpazione e con la contrazione muscolare. Diciamo ‘quasi’ perché le eccezioni, come in ogni settore, non mancano. Il dott. Agostini ha citato l’esempio di un atleta di medio livello che si è presentato all’attenzione del medico con una lesione della cuffia dei rotatori (giunzione muscolo-tendinea della spalla) pur senza avvertire sintomi di alcun tipo. Il prof. Parra ci ha addirittura parlato di un tennista che qualche hanno fa ha raggiunto gli ottavi a Wimbledon nonostante una lesione al polpaccio (distrazione di secondo grado avanzato) di oltre due centimetri, senza alcun tipo di bendaggio e senza accusare sintomi importanti – tra lo stupore generale dei fisioterapisti che si erano dedicati al suo caso.
Stiamo parlando di miracoli? Tutt’altro. Esistono condizioni più o meno ‘favorevoli’ per una lesione muscolare, che possono ridurre al minimo la sintomatologia, ed esistono atleti che sopportano il dolore meglio di altri. Maria Grazia Rubenni, responsabile medico del Settore Tecnico della FIGC, dice che la lunghezza del periodo di riabilitazione dopo un infortunio muscolare dipende dal soggetto. “Una stessa lesione può guarire in 15 giorni in un atleta e in 30 giorni in un altro, c’è molta variabilità. La riabilitazione procede per step: quando il paziente non sente più dolore, si passa allo step successivo”. Anche Rubenni ci fa l’esempio di un giocatore della nazionale italiana che ha giocato una manifestazione internazionale convivendo con uno strappo a un muscolo non così fondamentale per la pratica calcistica.
Il che ci porta all’ultima parte della nostra analisi: quanto sono importanti per il gesto tennistico i muscoli dell’addome, e in particolar modo i muscoli obliqui – quelli interessati dalle lesioni occorse a Matteo Berrettini e Novak Djokovic?
‘L’ADDOME DEL TENNISTA’: QUANT’È FREQUENTE QUESTO INFORTUNIO?
I muscoli dell’addome sono molto sollecitati nelle nostre attività quotidiane, poiché li utilizziamo per stabilizzare la colonna vertebrale quando dobbiamo compiere uno sforzo importante di qualsiasi tipo. Sollevare una cassa d’acqua, correre, tirare un pugno, tirare un dritto. I muscoli obliqui dell’addome – sono quattro, uno interno e uno esterno per ogni lato – hanno uno spessore di circa un centimetro e servono sia a sostenere l’espirazione, sia a flettere il torace sull’addome e a ruotarlo, sia ad aumentare la pressione addominale. Quest’ultimo accorgimento, ci spiega il dott. Agostini, serve a ‘schiacciare la colonna d’aria che è all’interno dell’addome e allevia il carico sulla schiena prima di sostenere uno sforzo importante‘. Considerando che il tennis è uno sport in cui il busto viene ruotato in modo violento innumerevoli volte durante una partita, concludiamo che sì, i muscoli addominali (obliqui compresi) sono fondamentali nella pratica tennistica. E non è raro che siano interessati da lesioni.
In ogni caso, la letteratura medica sportiva – lo conferma anche un documento rilasciato dall’ITF nel novembre 2019 – non è zeppa di esempi e riferisce come infortunio più frequente quello al muscolo retto dell’addome. In questo articolo comparso nel 2006 sul British Journal of Sport Medicine, l’autore si riferisce alla lesione del muscolo obliquo interno di un tennista come a una ‘lesione poco comune‘ che si manifesta di solito sul lato non dominante (muscolo obliquo sinistro per un destro, per capirci). A Djokovic invece è capitato il contrario; da destro, si è fatto male all’obliquo destro.
Come mai, dunque, la letteratura medica sembra smentire il parere di medici e fisioterapisti che lavorano nel mondo del tennis? Una possibile spiegazione ce la offre il prof. Parra. “La lesione addominale è sempre più frequente nel tennis in relazione al fatto che il servizio diventa sempre più importante. Il retto è molto utilizzato, forse più dell’obliquo – ma nei cambi di direzione l’obliquo diventa cruciale“. Galeotto fu l’avvento dei big server, dunque, anche se nel caso di Djokovic il dolore si è presentato dopo una sfortunata scivolata sulla scritta ‘Melbourne’ della Rod Laver Arena.
Scendendo nel particolare, Djokovic ha parlato di uno strappo esteso per 1.7 centimetri al momento della mia prima risonanza, che si sarebbe aggravato fino a raggiungere i 2.5 centimetri di fine torneo. Durante una conferenza a Bercy nel 2019, Nadal ha parlato dell’infortunio all’addome patito dieci anni prima allo US Open – uno strappo che si sarebbe esteso dai 6 millimetri di inizio torneo ai 26 dell’ultimo esame effettuato, dopo la netta eliminazione in semifinale contro Del Potro. Come abbiamo già detto, in relazione alle dichiarazioni degli atleti c’è un problema di correttezza formale – in fondo il loro mestiere è giocare a tennis, non interpretare e parlare di ecografie e risonanze – a cui si aggiunge un problema di terminologia aggravato dalla traduzione. Se Djokovic ha parlato espressamente di ‘tear‘ nelle sue dichiarazioni dopo l’Australian Open, volendo intendere chiaramente uno strappo, Nadal aveva parlato sia a New York nel 2009 che a Parigi nel 2019 di ‘strain‘, un termine che ha un ventaglio di significati più ampio. Il contesto, però, ci consente di dedurre che anche Rafa intendesse proprio parlare di strappo.
Adesso ci manca soltanto l’ultimo step. Si può giocare a tennis con uno strappo muscolare ai muscoli dell’addome, e in particolar modo si può riuscire a farlo a un livello tanto alto da vincere un torneo dello Slam?
“A questa domanda è difficile rispondere perché le lesioni muscolari sono molto particolari e non sempre sono correlate al dolore nello stesso modo“, è il parere del dott. Agostini. Il parere del prof. Parra è molto articolato: “Se non ci sono armi per intervenire sulla lesione, è meglio non rischiare. Anche se oggi, tendenzialmente, le armi ci sono. Bisogna cercare sempre di intervenire per salvaguardare l’integrità fisica del giocatore, non pensando soltanto al torneo ma al prosieguo della stagione. I miracoli non esistono, esistono terapie ben fatte ma sempre con lo scopo di ottenere una restitutio ad integrum che permetta di proseguire l’attività sportiva. Se le lesioni di Djokovic e Berrettini sembravano lo stesse, evidentemente quella di Matteo era una lesione vera e propria. Capisco che Djokovic abbia avuto un grande fisioterapista, ma in presenza di una lesione vera e propria il tempo a disposizione per il recupero era troppo poco. Sono convinto che Nole abbia avuto una qualche lesione iniziale sulla quale, in qualche modo, sono intervenuti in modo efficace. Probabilmente, si trattava più che altro di uno stiramento“.
Giovanni Teoli, fisioterapista di Fognini dall’aprile del 2019 e presente quest’anno a Melbourne, racconta di aver visto Djokovic piuttosto in forma a ridosso delle ultime partite del torneo. Sulla possibilità di competere con uno strappo è cauto ma esprime ugualmente il suo parere: “Bisogna conoscere la localizzazione e la profondità di una lesione per giudicare. Per la mia esperienza, però, con lo strappo non ti muovi e devi fermarti per evitare che il periodo di stop si allunghi. A uno strappo si accompagna spesso un coinvolgimento vascolare e questo può tenerti fermo anche per un mese e mezzo o due mesi“. C’è proprio il caso di Fabio Fognini, che nel febbraio 2016 si ritirò dal torneo di Rio de Janeiro per un infortunio apparentemente simile a quello sofferto da Djokovic – uno strappo al muscolo obliquo, a seguito del quale fu costretto a rispettare un periodo di riposo di quasi due mesi. “Me lo ricordo quell’infortunio” racconta il prof. Parra. “Fabio era lontano da casa, la lesione era grossa e molto profonda e non ha avuto modo di intervenire subito come è abituato a fare. Ci sono state delle difficoltà oggettive. In ogni caso il recupero è stato nei tempi canonici, dato il tipo di lesione”.
C’è poi un ultimo tema da introdurre, che riguarda la differenza tra il tennis e gli sport di squadra. Facciamo l’esempio del calcio: un mese di stop, soprattutto in un periodo della stagione non particolarmente decisivo, può essere facilmente tollerato. Innanzitutto si gioca in undici, quindi c’è sempre qualcuno pronto a subentrare al tuo posto, e poi lo stipendio arriva comunque. A tennis, se non giochi non guadagni. E, va da sé, non vinci. Se giochi per migliorare record già leggendari, come nel caso di Djokovic che certo non sta a contare i milioni prima di andare in campo, la pressione a competere è persino maggiore.
Teoli ci spiega che una volta comunicato allo staff medico del torneo l’esistenza di un problema muscolare, si possono assumere antidolorifici per via orale – ma non è consentito fare iniezioni, sarebbe doping – e ce ne sono alcuni che agiscono abbastanza bene sui tessuti molli, dunque sul dolore associato all’infortunio. “L’eccesso di antidolorifici in fase acuta, però, può dare vasodilatazione e quindi aumentare la lesione” precisa il dott. Agostini. Si può utilizzare anche il neurotaping, quei cerotti colorati che stimolano il processo di auto-guarigione. “Io sono dell’idea che sulle lesioni muscolari si deve intervenire subito” dice il prof. Parra, che ha messo appunto una metodica laser per trattare le lesioni muscolari sulle quali le terapie tradizionali sono poco efficaci e la terapia chirurgica risulterebbe troppo invasiva. “Se nel tennis si aspettassero le 48 ore per intervenire, ci sarebbe un grosso svuotamento dei tabelloni!“.
Per questo motivo il tennis, come tutti gli sport individuali, porta con sé un carico di difficoltà ulteriore. I tennisti sono costretti a decidere se è il caso di rischiare di compromettere una fetta di stagione per la prospettiva di vincere una partita in più, un titolo in più. “In un altro torneo mi sarei ritirato” ha detto Djokovic al termine della partita contro Raonic, quella successiva all’infortunio contro Fritz. Dal momento in cui ha accusato il dolore e si è fermato per farsi trattare sul campo, Nole è stato in campo circa altre dodici ore divise in quattro partite e mezzo – nelle quali ha battuto un top 20 (Raonic) e due top 10 (Zverev e Medvedev). Non sono mancati i momenti di difficoltà, e anzi contro Zverev ha giocato anche piuttosto male, ma non è mai apparso in particolare difficoltà fisica nel corso di queste partite.
Fonti interne al suo staff riportano un generico fastidio nell’esecuzione del dritto durante gli ultimi match a Melbourne, con scarsa influenza sull’esecuzione del servizio, e confermano la diagnosi di strappo. Ma ad eccezione di quanto dichiarato da Vajda, Ivanisevic e dallo stesso Djokovic, non ci sono state altre dichiarazioni ufficiali né conferme di carattere clinico sull’infortunio.
Pur prendendo atto che la letteratura medica non esclude la possibilità di proseguire l’attività sportiva in presenza di una lesione muscolare, quella di Djokovic non è stata una ‘semplice’ performance. Sembra lecito, anche alla luce dei pareri raccolti dagli esperti e in assenza della dichiarazione diretta di un membro dello staff medico di Nole o del torneo, ipotizzare che la lesione fosse in realtà meno grave di quanto reso pubblico dal numero uno del mondo. Ricordiamo che a fine anno sarà pubblicato un documentario nel quale, per conferma dello stesso Djokovic, verrà illustrato il processo di riabilitazione che ha portato il fenomeno serbo a vincere il suo nono Australian Open.