Con il successo nel WTA 1000 di Dubai, Garbiñe Muguruza è tornata a vincere un titolo a distanza di due anni. L’ultima vittoria nel Tour di Muguruza risaliva infatti all’International di Monterrey 2019 (finale su Azarenka). Se però cerchiamo nel suo palmarès una affermazione davvero importante, occorre addirittura risalire al 2017, al Premier5 di Cincinnati, dell’agosto 2017: sono passati quasi quattro anni.
Nel 2017, qualche settimana dopo la vittoria in Ohio, Muguruza sarebbe diventata numero 1 del mondo a 23 anni ancora da compiere (è nata l’8 ottobre 1994) Tutti pensavano stesse entrando nel periodo migliore della carriera; Garbiñe era la campionessa in carica di Wimbledon e si presentava come una giocatrice in grado di vincere su tutte le superfici: la terra del Roland Garros 2016, l’erba di Wimbledon 2017, il cemento di Cincinnati 2017. Invece nel 2018 sarebbe cominciato un lungo periodo di crisi.
Scaduti i punti di Wimbledon e Cincinnati, infatti, Muguruza sarebbe uscita dalla Top 10, e nel corso del 2019 avrebbe perso anche il diritto alle teste di serie negli Slam, visto che era uscita anche dalle prime 30 del ranking. Si trattava di un processo di involuzione del tutto inatteso, proprio perché coinciso con l’età che normalmente si considera la migliore per una atleta, tra i 24 e i 25 anni.
Anche per questo il recente successo di Dubai assume un valore simbolico importante. Se però prendiamo in considerazione soltanto i tornei vinti, rischiamo di sbagliare prospettiva. Muguruza non è improvvisamente risorta la scorsa settimana negli Emirati, ma era già tornata protagonista sin dal gennaio 2020, con la finale raggiunta all’Australian Open, persa in tre set contro Sofia Kenin.
Analizzare il 2020-2021 di Muguruza non è per nulla semplice, perché vanno considerati diversi elementi anche molto lontani fra loro, che non sempre coincidono temporalmente, e che non si prestano a un racconto lineare. Cambi di allenatore, questioni tecniche, aspetti agonistici, fortuna e sfortuna nei tabelloni, qualità delle avversarie, lo stop della pandemia, la variabile inattesa del nuovo ranking: forse per spiegare tutti gli elementi che hanno influito sull’ultimo biennio di Muguruza sarebbe più adeguato utilizzare un ipertesto, perché un normale articolo rischia di sfilacciarsi in tante direzioni differenti, difficili da tenere insieme. Ma visto che questo abbiamo a disposizione, facciamo un tentativo.
Luglio 2019: Muguruza è in piena crisi di risultati, e fatica a recuperare la solidità dei tempi migliori. Ha poca fiducia nel proprio gioco e in particolare il dritto è diventato un colpo inaffidabile, che le procura errori in serie. Le avversarie lo sanno e insistono su quel punto debole, raccogliendo spesso punti determinanti, che a fine match fanno la differenza. Ma anche il servizio sta diventando meno sicuro e non può che causare altre conseguenze negative negli equilibri del suo tennis.
Di fronte a problemi così profondi, Garbiñe decide di chiudere il lungo e controverso capitolo con il coach Sam Sumyk, per tornare a collaborare in esclusiva con Conchita Martinez, che l’aveva già affiancata nel passato (in particolare durante le due settimane vincenti a Wimbledon).
Al di là del valore di un coach, a volte le collaborazioni diventano sterili anche semplicemente perché si logorano i rapporti personali, e questi influiscono sulla qualità del lavoro strettamente tecnico. Nella off season condotta con Martinez, evidentemente Muguruza lavora bene, e dall’inizio del 2020 si ripresenta una giocatrice di nuovo in grado di misurarsi con le più forti. All’Australian Open non è testa di serie, eppure sconfigge tre Top 10 (Bertens, Svitolina, Halep) e raggiunge la finale, dove perde in tre set contro Sofia Kenin.
L’Australian Open 2020 ci restituisce una giocatrice completamente ricostruita sul piano fisico-tecnico, ma con ancora progressi da compiere nei momenti cruciali delle grandi partite. Quello che manca a Garbiñe per tornare al livello della Muguruza del 2017, la numero 1 del mondo e campionessa di Wimbledon, è la sicurezza agonistica che le aveva permesso di vincere due Major. Magari sbaglio, ma non credo che quella giocatrice sarebbe arrivata al terzo set contro Kenin (nella finale poi persa 4-6, 6-2, 6-2): probabilmente non sarebbe calata di aggressività e di convinzione a partita in corso, e avrebbe vinto direttamente in due set, sulla scia del successo nel parziale di apertura.
Ma al di là della delusione contro Kenin, Garbiñe è comunque in chiaro recupero. Per questo quando arriva la pandemia a fermare il circuito, è una delle tenniste più danneggiate: fa parte di quel gruppo di giocatrici (come Kenin, Rybakina, Jabeur) che avrebbero potuto sfruttare il momento molto positivo per ottenere altri ottimi risultati. Risultati che avrebbero significato progressi in classifica, nei guadagni e nella autostima al momento di scendere in campo. E invece tutto si ferma.
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