“Non si diventa così rapidamente un cuoco“. Jannik Sinner chiude così la prima conferenza stampa (virtuale, a seguito di una partita praticamente senza pubblico; avrebbe meritato ben altro) da finalista di un Masters 1000. Il simpatico seguito della favola ‘Jannik apprendista cuoco’ (trovate qui la prima puntata) diverte e coinvolge tutti, soprattutto il diretto interessato – che appena dopo aver battuto Bautista Agut per approdare all’ultimo atto del Miami Open, articola così il suo pensiero. “Quando sei lì a pelare le patate, non vuol dire che proprio non sai cucinare. Vuol dire che la strada è lunga, che devi imparare tante ricette, devi capire come impiattare. Ma quello arriverà dopo. Io credo di essere cresciuto nelle ultime tre settimane, ma questo non vuol dire che io abbia finito di pelare patate e carote. Mi piacerebbe essere già lì a impiattare, ma adesso è impossibile“. L’italiano di Sinner è abbastanza essenziale, ma questo concetto è espresso in modo assai rimarchevole. Potresti non averlo mai visto giocare e forse ti basterebbe sentirgli pronunciare queste parole per immaginare cosa può fare in campo.
LA PARTITA
Ad esempio quello che ha fatto sul 3-3 del secondo set, quando è riuscito a tenere un game di battuta di importanza capitale nonostante lo svantaggio di 0-40 e quattro palle break da annullare. “Roberto ha alzato il ritmo, io non ho servito benissimo e ho fatto qualche errore. Ho cercato di rimanere attaccato alla partita perché finire sotto 4-3 con il break… non sarebbe stato facile rientrare. Ovviamente preferiresti non trovarti in quella situazione, ma anche quando ti trovi sotto 0-40 non è detto che tu debba perdere il game. E proprio quel game ha cambiato un po’ la partita: ci sono punti che possono decidere un match”. Il distillato di saggezza di Jannik si conclude così: “In ogni caso, essere sotto di un break non significa niente. La partita non è certo finita“.
“Non è mai semplice affrontare Roberto, perché capisce molto bene il gioco e fa tornare indietro molte palle“ spiega il ragazzo che l’ha battuto due volte in meno di un mese. “Sapevo che sarebbe stata totalmente diverso. Non ho pensato alla vittoria di Dubai, non penso tanto a queste robe. Nel terzo, quando mi ha breakkato è salito di livello; io ho dovuto cambiare qualcosa molto velocemente e servire meglio, sotto 3-1 ero un po’ sotto stress. Poi ho deciso di spingere di più, e forse era la cosa migliore da fare in quel momento“.
RECORD E AMBIZIONI
“Ogni anno che passa sono un giocatore diverso“, continua. “E fra un anno sarò ancora un altro giocatore, spero, perché non vorrei fermarmi qui come livello. Ma sono sicuro che non mi fermerò, perché alle mie spalle ho Riccardo, Dalibor, tanti esperti. Però non mi metto fretta, la strada è lunghissima. Non vuol dire nulla il fatto di fare una finale qui“. Sarà, a noi sembra già più di qualcosa caro Jannik. Gli fanno notare che è appena il quarto teenager a raggiungere l’ultimo atto al Miami Open dopo Agassi, Nadal e Djokovic. Indovinate: esatto, non si scompone neanche qui. “Bello saperlo. Però come ho detto ho 19 anni… e questa finale non significa niente, c’è un lungo processo per arrivare a quello che hanno fatto quei tre“. Insomma, è bello essere in finale di un Masters 1000, ma non significa niente. Per molti sarebbe il coronamento di una carriera. Ma evidentemente Jannik non è tra quei molti.
“E ho ancora una partita davanti“, ricorda a tutti. Poi racconta che in qualche modo l’idea di poter far bene in questo torneo gli ronzava in testa già prima di volare in Florida. “Sapevamo che molti giocatori non sarebbero venuti qui, quindi sono venuto qui con la mentalità giusta e mi sono sentito bene sin da subito. Ho cominciato il torneo con l’idea di arrivare in fondo. Certo, non solo qui, in tutti i tornei che gioco penso di poter andare lontano ma non mi metto fretta. Penso a giocare dopo partita, poi vediamo cosa succede. Ogni settimana cerco di vincere più partite possibile, a volte va bene, a volte meno bene“.
FAMIGLIA E AMICI
I giornalisti d’Oltreoceano, meno adusi di noi alle faccende d’infanzia del tennista italiano, gli chiedono conto delle sue origini. La genesi del suo nome, il lavoro dei suoi genitori. Jannik racconta che la sua freddezza sul campo gli è stata instillata proprio da mamma e papà. “Sanno cosa significa lavorare sodo e mi hanno trasmesso questa mentalità. Quando avevo 14 anni sono andato da Riccardo Piatti ed è stato un grande cambiamento per me, non avevo mai giocato ‘sul serio’ a tennis e ho iniziato ad allenarmi mattina e pomeriggio. È stato difficile, mi ha aiutato imparare a non sprecare energie, per concentrarle sulle cose importanti“.
A proposito di aiutarsi, chiedono a Jannik se essere stato il partner di doppio di Hubert Hurkacz a Dubai può aver inciso sul fatto che entrambi siano arrivati in fondo qui a Miami. Poco dopo la conferenza di Sinner, infatti, il polacco ha battuto in due set Rublev e si è qualificato per la prima finale 1000 in carriera, proprio come Sinner. “Hurkacz è una bravissima persona, forse il migliore amico che ho nel circuito. Qualche volta ci alleniamo insieme, anche in spogliatoio ogni tanto parliamo. Mi ha scaldato prima dei quarti, proviamo ad aiutarci un po’. Alla fine ognuno però deve fare il suo, e se dovesse vincere la sua semifinale, in finale non ci sarebbe spazio per l’amicizia. In questo sport c’è solo un vincitore“. La sensazione è che a Jannik capiterà spesso di esserlo. Magari anche qui a Miami.