Per la prima volta dopo undici anni nel Tour femminile si disputano due tornei sulla terra verde. Sui campi di Charleston Veronika Kudermetova ha vinto il primo appuntamento, l’ormai classico “Charleston Open” impegno di livello WTA 500. Ma in più, rispetto al solito, in questi giorni è in corso un secondo torneo sugli stessi campi, anche se di livello inferiore (WTA 250). Non accadeva dal 2010 che due eventi del circuito professionistico femminile si disputassero sulla terra verde.
Allora come oggi si era in aprile, e nel 2010 per due settimane consecutive si giocò su questa superficie particolare: dal 5 aprile a Ponte Vedra Beach, Florida, un torneo paragonabile agli attuali WTA 250 (allora definiti International); e dal 12 aprile a Charleston, South Carolina, il torneo che continua ancora oggi, paragonabile all’attuale WTA 500. A vincere furono Caroline Wozniacki in Florida e Samantha Stosur in South Carolina.
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La terra verde è una superficie tipica del tennis statunitense, ma nel tempo a livello professionistico è stata progressivamente abbandonata dai tornei del circuito maggiore, sino a ridursi alla presenza limitatissima, quasi di pura testimonianza, di oggi. Quest’anno però, la pandemia ha causato la cancellazione della Fed Cup (rinominata Billie Jean King Cup), liberando uno “slot” che ha permesso di raddoppiare l’appuntamento a Charleston.
Cosa è, e come si gioca sulla terra verde? In inglese è classificata come “clay”, cioè “argilla” ma in realtà non è composta da argilla (terracotta tritata) come i campi europei, quanto piuttosto da pietra tritata. È definita anche Har-Tru, denominazione data dal suo inventore, il costruttore Henry Alexander Robinson (HAR) che alle iniziali del proprio nome aggiunse TRU, abbreviazione di “true green”. Il primo campo realizzato con questo materiale risale al 1931 e inizialmente come materia prima veniva utilizzata una pietra cavata in Pennsylvania. Ma se oggi ci si rivolge alla impresa “Har-Tru”, ancora esistente, si otterrà un campo realizzato con una pietra che proviene dalla Virginia, la cui definizione geologica è “Pre-Cambrian metabasalt”.
Primo campo del 1931: quindi sono passati 90 anni esatti dalla sua introduzione. Nel corso del tempo la terra verde ha avuto un successo crescente negli Stati Uniti, sino a diventare la superficie di tre US Open negli anni ‘70 (1975-1977); ma poi è iniziato il declino, quanto meno nei tornei del circuito professionistico, ed è stata soppiantata dal cemento, che oggi monopolizza gli eventi nordamericani.
Come superficie la terra verde è considerata più veloce rispetto alla media dei campi europei in terra rossa, ma produce condizioni tecniche affini, soprattutto perché su entrambe si scivola facilmente, e sappiamo che la scivolata determina specifiche conseguenze nello sviluppo del gioco. Ne avevo parlato due settimane fa nell’articolo dedicato a Naomi Osaka e le superfici: “La scivolata è la vera arma in più di chi interpreta al meglio la terra, perché se prima si scivola e poi si colpisce si è subito pronti a invertire la direzione di corsa, avendo già assorbito l’inerzia dello spostamento. Un vantaggio che nelle fasi difensive permette di rimanere nello scambio recuperando attacchi in successione, che su altre superfici risulterebbero indifendibili”.
Anche per questo normalmente siamo abituati ad associare la terra rossa agli scambi lunghi, in cui spesso (ma non sempre) prevale la qualità difensiva su quella offensiva. Le cose sono un po’ differenti per la terra verde: dato che è mediamente più rapida, si dovrebbe ottenere un maggiore equilibrio tra tennisti di impronta difensiva e tennisti di impronta offensiva.
Insomma, si tratta di una superficie ricca di interesse, con peculiarità degne di nota. Purtroppo però, l’esiguità dei tornei disputati non consente di individuare una tipologia di giocatrice specifica, in grado di primeggiare. Come detto, dal 2012 si gioca esclusivamente a Charleston: un solo torneo a stagione, con nemmeno tutte le più forti presenti: un riferimento troppo limitato per consentire analisi approfondite. Però qualcosa si può dire, a partire dalla edizione appena conclusa.
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