Le superfici non sono tutte uguali. Ogni tanto a qualcuno viene il dubbio che non sia (più) così, ma ci sono i dati a dimostrare che le differenze che un tempo apparivano più evidenti esistono anche oggi. L’erba è diventata meno veloce rispetto a un paio di decadi fa, questo è confermato, ma la distanza tra terra e cemento non sembra essersi appianata.
Del resto, a fronte di iper-campioni come Djokovic e Nadal che hanno trovato il modo di eccellere anche sulla superficie che offre loro meno vantaggi naturali, ci sono tanti giocatori che continuano a faticare sui campi che meno digeriscono. Va da sé quindi che il tennis sul duro non è identico al tennis sulla terra, perché il comportamento della palla (proprio a livello fisico) è differente. Altrimenti le prestazioni di tutti i giocatori sarebbero uniformi, le partite sarebbero più o meno tutte uguali e i dati relativi agli ace – la metrica migliore per confrontare indirettamente la velocità dei campi – si manterrebbero nello stesso range su tutte le superfici. Invece i dati della carriera di Nadal dicono che lo spagnolo colpisce in media 2 ace a partita sulla terra e 3,5 sul cemento (+75%); Federer rispettivamente 5,9 e 7,9 (+34%); Djokovic 3,7 e 5,6 (+51%).
Dunque sulla terra battuta, la superficie sulla quale è attualmente impegnato il Tour, il tennis cambia. Ma esattamente in che modo? Come cambiano il modo di stare in campo e la resa dei colpi? Quali sono le difficoltà che i giocatori devono affrontare rispetto al cemento e quali invece i vantaggi? Il discorso è lungo, ma prima di addentrarci nelle considerazioni tattiche – dove subentra anche un po’ di soggettività – ci dedicheremo a una premessa di ordine fisico-teorico, al fine di avere una solida base di partenza per la nostra digressione. Tireremo le conclusioni in un secondo articolo, che verrà pubblicato tra una settimana.
I ringraziamenti per la stesura di questo articolo vanno tutti a Matthew Willis (che su Substack cura un blog tennistico assai interessante) per averci fatto scoprire le pubblicazioni di Rod Cross, ex professore del dipartimento di Fisica dell’Università di Sydney che ha dedicato gran parte della sua carriera alla ricerca nell’ambito della fisica applicata allo sport. Trovate un po’ del suo materiale qui, qui e qui, se l’argomento vi stuzzica. In questo pezzo cercheremo di fornirvi le indicazioni principali delle sue ricerche, spezzettate in concetti semplici. Se non vi interessa la fisica e volete leggere direttamente le conclusioni, saltate il primo blocco e volate al secondo.
PRIMO BLOCCO: LA TEORIA DEI RIMBALZI SULLE SUPERFICI
Per farla molto semplice, il rimbalzo di una palla da tennis è un sistema fisico in cui un corpo sferico è dotato di una velocità divisibile in due componenti: la velocità orizzontale (vx1, deriva dal colpo inferto con la racchetta) e la velocità verticale (vy1, deriva dal colpo e ‘combatte’ con la gravità). Dopo l’impatto con la superficie a un determinato angolo di incidenza (θ1), le due velocità risultano ovviamente ridimensionate (vx2 e vy2); questo significa che la palla perde un po’ della sua spinta e della sua velocità, e ne perde un po’ di più o un po’ di meno in base alla superficie sulla quale rimbalza.
Partiamo dal principio. Nel 1984 Howard Brody aveva messo a punto un primo modello per studiare la fisica della palla da tennis, immaginandola come un corpo rigido – che a contatto con la superficie di impatto non si deforma. Questo modello, rivelatosi inesatto e incompleto, ipotizza che la velocità orizzontale della pallina dopo il rimbalzo sia sempre il 64,5% di quella precedente al rimbalzo, a prescindere dalla superficie e dell’angolo di impatto (purché sia superiore a 16°).
In realtà la palla si deforma eccome. Questo è il motivo per cui la fisica del rimbalzo è molto più complessa (‘il peggior esame di calcolo che vi troverete a svolgere in vita vostra‘, secondo David Foster Wallace) e di conseguenza le superfici non sono tutte uguali. Per qualche frazione di secondo, infatti, la palla – che arriva con una rotazione trascurabile – inizia a scivolare sul campo, percorrendo una micro-distanza (D in figura) che corrisponde allo spostamento dell’asse della forza N, ovvero quella che combatte con l’attrito (F) per spingere la palla verso l’alto. Superata questa fase di transizione, la palla riprende il moto di rotazione e spicca il volo verso la fase successiva al rimbalzo.
La durata di questa fase di transizione, e quindi la resistenza che la superficie offre alla pallina, dipende dall’attrito della superficie stessa e dalla tipologia di colpo (portate pazienza, qui ci arriveremo tra poco). Sulla terra dura un po’ di più, quindi la distanza D è più grande e la superficie ‘ruba’ più inerzia alla palla che ne esce rallentata; sul cemento dura di meno, quindi la distanza D è più piccola e la palla riprende prima il moto verso l’alto, risultando più veloce dopo il rimbalzo. Decade quindi la regola ideale del 64,5%.
La premessa si completa specificando che alla superficie sono attribuibili due caratteristiche fisiche.
- Il coefficiente di frizione (µ), che misura l’attrito della superficie sottraendo la velocità orizzontale post-rimbalzo a quella pre-rimbalzo. In pratica, ci dice quanta velocità la palla perde sul piano orizzontale. Più è alto, più la superficie fa attrito (accade sulla terra) e quindi rallenta il colpo
- Il coefficiente di restituzione (e), che invece misura quanto la superficie ‘aiuta’ la pallina a rimbalzare ed è il rapporto tra velocità verticale finale e velocità iniziale. Più è alto, più la superficie è generosa con il rimbalzo (accade sulla terra)
Se è più semplice intuire perché l’aumento del coefficiente di frizione rallenta il colpo (e quindi la partita), occorre forse specificare perché un campo che ‘restituisce’ di più viene considerato più lento. Un rimbalzo più alto concede al giocatore più tempo per colpire e trovare il punto di impatto ideale, laddove un rimbalzo basso costringe il ribattitore ad agire in un intervallo di tempo più piccolo.
Queste due caratteristiche fisiche sono state inglobate in una formula messa a punto dalla ITF per calcolare il Court Pace Rating (CPR), un indicatore della velocità dei campi. La formula è la seguente:
CPR = 100 (1-µ)+150(0,81-e)
Questo rating, che sostanzialmente ci dice quanta velocità ha la palla prima di rimbalzare e quanta ne ha dopo, si ottiene dopo misurazioni di laboratorio in condizioni fisse: su un campione della superficie viene scagliato un colpo a circa 108 km/h, privo di topspin e con un angolo di 16°.
Si tratta però di una dato parziale, perché non tiene conto di quello che succede quando la pallina impatta sulla superficie con un angolo maggiore, ovvero quando è dotata di topspin. E come vi abbiamo anticipato, quando la palla arriva con una forte rotazione le cose sono diverse (non preoccupatevi: ci siamo quasi). Il dato è parziale anche perché non tiene conto degli altri fattori che influenzano la velocità del campo: su tutti le condizioni atmosferiche e la totalità degli strati che compongono il campo, non soltanto la parte superficiale su cui si svolge il gioco.
Il CPR non va confuso con il CPI (Court Pace Index), che si basa sulle stesse premesse fisiche ma non viene calcolato in laboratorio, bensì semplicemente dedotto dalle misure di velocità offerte dai dati Hawkeye (Slam, Masters 1000 e ATP Finals). In un certo senso è una misura più veritiera, poiché si basa su dati di gioco di tornei effettivamente disputati e su un campionario di colpi più ampio.
SECONDO BLOCCO: COSA CAMBIA DAVVERO TRA LE SUPERFICI
Adesso che vi abbiamo fornito una chiave di lettura, possiamo spiegarvi… perché è sbagliata. O meglio, perché il mantra dell’analisi della velocità dei campi deve essere ’dipende dal colpo che giochi’. Per anni abbiamo imprecato contro la presunta cospirazione dei tornei, che avrebbero reso le superfici tutte uguali per favorire i giocatori più forti. La verità potrebbe essere un po’ diversa, e la ‘colpa’ (se di colpa si può parlare) sembra attribuibile molto di più ai produttori di racchette, che hanno brevettato attrezzi con i quali è molto più semplice giocare in topspin, e agli allenatori, che hanno spinto perché si diffondesse uno stile di gioco basato sulle rotazioni.
Se i campi ci sembrano tutti simili, è perché tutti giocano con molte rotazioni. Il punto sembra questo. Sia le simulazioni effettuate al computer dal formidabile utente Twitter @fogmount (date un’occhiata qui) che le analisi effettuate – con una videocamera – dal team del succitato Rod Cross confermano una verità abbastanza taciuta: c’è molta più differenza tra le superfici se prendiamo in esame i colpi piatti (angolo di impatto piccolo) di quanta ce ne sia confrontando la resa dei colpi in topspin (angolo di impatto più grande).
Ci serviamo dei dati e degli schemi pubblicati da @fogmount, ma possiamo confermarvi che lo stesso risultato emerge dalle ricerche di Rod Cross., che si basano su dati ottenuti da esperimenti reali.
Simulazione: un colpo senza topspin
Questa è la simulazione computerizzata di un colpo senza topspin scagliato a 80 miglia orarie (circa 130 km/h) sulla terra e sull’erba. Sul rosso, la palla raggiungerebbe la linea di fondo a una velocità inferiore di circa 8 km/h (-14%), con circa 0,05 secondi di ritardo e più alta di 30 centimetri.
Simulazione: un colpo con topspin
Questa è invece la simulazione di un colpo eseguito con 4000 rpm (rotazioni per minuto, Nadal può raggiungere anche le 5000), scagliato sempre a circa 130 km/h. Come potete vedere, e come forse non avreste mai immaginato, la palla raggiunge la linea di fondo dopo il rimbalzo praticamente alla stessa velocità e dopo lo stesso tempo (la differenza è di appena un millisecondo). Permane soltanto uno scarto di circa 30-50 centimetri in altezza (1 piede o poco più), sempre in favore della terra battuta.
TERZO BLOCCO: ANALISI DEI COLPI IN TOPSPIN E BACKSPIN
Siamo finalmente arrivati al punto. Non è soltanto il campo a ‘fare’ la velocità di gioco, ma anche lo stile adottato dai giocatori. Ricordate la fase di transizione di cui vi abbiamo parlato per spiegare la fisica del rimbalzo? Ora è il momento di spiegare quella parentesi: un colpo in topspin, che raggiunge il terreno con un angolo più ampio e in forte rotazione, affronta una fase di transizione molto più breve e dunque viene frenato molto di meno dall’attrito della superficie. Per spiegare cosa accade durante il rimbalzo di un colpo dotato di un topspin apprezzabile, diventa cruciale prendere in esame le componenti rotazionali della velocità della palla: parliamo nello specifico della velocità angolare (ω1 nella prima figura, ovvero quanto rapidamente la palla gira su sé stessa) e della velocità tangenziale, cioè l’effetto che la rotazione della palla imprime al moto globale della palla stessa.
Nonostante ogni punto della circonferenza della palla abbia una sua velocità angolare, che punta in una direzione diversa, per semplicità di analisi consideriamo quella della parte alta della palla e quella della parte bassa. Nel caso di una palla in forte rotazione, la velocità tangenziale della parte superiore della pallina è maggiore della velocità orizzontale complessiva al momento dell’impatto con la superficie; in qualche modo, è come se la palla stesse ‘più ruotando su sé stessa che spostandosi’.
Durante l’impatto, la velocità tangenziale superiore si riduce (perché la palla diminuisce il suo moto di rotazione) fino a eguagliare quella orizzontale complessiva; a questo punto la palla riprende a rotolare e riparte verso l’alto dopo aver subito l’effetto dell’attrito della superficie in modo considerevolmente minore rispetto a un colpo piatto. Anzi, in questo caso l’attrito di una superficie come la terra battuta gioca a favore del colpo in topspin, aiutando la palla a conservare gran parte della sua velocità orizzontale.
Per sintetizzare, la terra rallenta molto di più i colpi piatti di quanto non faccia con quelli dotati di rotazione. È un po’ come se il topspin fosse un modo per aggirare l’attrito della terra battuta e generare picchi di velocità che, con un colpo piatto della stessa forza, sarebbe più difficile raggiungere.
Excursus: i colpi in backspin
Avendo scoperchiato il vaso di Pandora dei colpi dotati di spin, apriamo una piccola parentesi su quelli in backspin, ovvero con rotazione all’indietro. In questo caso, la fase di transizione del rimbalzo è molto più lunga perché la forza di attrito esercitata dalla superficie deve agire per più tempo sulla palla affinché inverta il verso della sua rotazione e rimbalzi, ruotando in avanti, verso l’avversario che aspetta di colpirla.
Rispetto ai colpi piatti e in topspin, le due differenze principali a livello fisico riguardano la velocità complessiva, che risulta diminuita in misura maggiore (la palla ‘frena’ di più), e l’angolo successivo al rimbalzo – che in questo caso è superiore a quello di incidenza. Non ce ne accorgiamo perché il back arriva già molto basso, con angolo di incidenza molto piccolo, e ci sembra che l’angolo di rimbalzo sia ugualmente piccolo; lo è in senso assoluto, ma è maggiore di quello di incidenza.
Su quale superficie il back è più efficace? A livello fisico sul cemento e sull’erba, perché l’attrito è inferiore e quindi sia l’effetto sulla diminuzione della velocità che sull’aumento dell’angolo di rimbalzo sono inferiori. La palla rimbalza più bassa e più rapida, costringendo l’avversario ad abbassarsi per colpire. Sulla terra, l’attrito esercita un effetto complessivo enorme sul back e la palla rimbalza più alta e più lenta; l’avversario ha quindi più tempo per colpirla, ma la difficoltà diventa quella di imprimere forza e velocità a una palla che praticamente non ne ha più. In soldoni, non c’è alcuna inerzia a cui appoggiarsi.
CONCLUSIONI: VERSO IL SECONDO ARTICOLO
Quest’ultima è una delle ragioni per cui alcuni giocatori fanno molta fatica sulla terra. Ce ne sono però anche altre, oltre a quelle meramente tattiche; riguardano la meccanica dei colpi (leggasi: ampiezza delle aperture), il comportamento della palla durante la sua traiettoria da un campo all’altro e quello che in fisica si chiama ‘effetto Magnus’. Ma è una storia che vi racconteremo nella seconda parte di questo articolo, in cui chiuderemo il cerchio e faremo qualche ipotesi sulle caratteristiche che servono per fare bene sulla terra.
Oggi vi lasciamo con questo grafico (del nostro solito utente Twitter, in pratica un angelo custode) e una considerazione.
Ci sembra corretto suggerire che l’analisi della velocità dei campi dovrebbe includere anche il comportamento in occasione dei colpi ricchi di topspin (ampio angolo di rimbalzo). Non è sufficiente ipotizzare quanto sia veloce un campo basandosi soltanto sui colpi che arrivano con angoli ristretti (l’assetto utilizzato in laboratorio per il calcolo del CPR).
Il risultato che si ottiene confrontando la resa di un colpo piatto e di un colpo in topspin su terra e cemento, si può ottenere anche operando lo stesso confronto su campi in cemento di diverso tipo. Come indica il grafico, si va da quelli – area blu, in alto a sinistra – molto rapidi (poco attrito) con rimbalzo generoso (alto coefficiente di restituzione) a quelli – andando verso destra – tendenzialmente lenti per quanto riguarda la velocità (molto attrito) ma con un rimbalzo meno accentuato (basso coefficiente di restituzione).
Ci sono, in definitiva, campi in cemento che rallentano i colpi piatti ma lasciano viaggiare abbastanza quelli arrotati, un po’ come accade sulla terra battuta. Campi lenti… ma allo stesso tempo veloci, e il fatto che ci sembrino in un modo o nell’altro dipende (anche) da chi ci gioca. Anche per questo motivo non è infrequente che il parere dei tennisti su una stessa superficie sia difforme. Un esempio tra tanti, durante le Finals 2013 Nadal era convinto che i campi di Londra fossero più lenti di quelli di Bercy, per Djokovic invece erano più veloci. Insomma, fidatevi con moderazione di quello che dicono i tennisti e del CPR. A sabato prossimo!