Con l’ottava vittoria consecutiva – alle quattro di questa settimana si sommano quelle ottenute per sollevare il trofeo di Belgrado – Matteo Berrettini raggiunge la finale del Masters 1000 di Madrid. Una progressione aritmetica che rende a tutti gli effetti la finale contro Sascha Zverev una prova del nove, in senso stretto e in senso più metaforico. Purtroppo sono tornei in cui non ci si può fermare troppo a godersi una vittoria, ancorché netta e brillante come questa in semifinale contro Casper Ruud, perché il riposo concesso non supera le ventiquattr’ore.
Anche a questo servono le conferenze stampa, a verbalizzare quello che si ha dentro dopo aver raggiungo un traguardo che i tennisti italiani avevano raramente avvicinato nei primi trent’anni dell’esistenza dei Masters 1000 (nati come ATP Championships Series nel 1990), e che invece Fognini, Sinner e Berrettini hanno tagliato tutti e tre in un biennio. Gli ultimi due addirittura nel giro di quaranta giorni.
“È sicuramente una gran bella sensazione” racconta Matteo in un inglese che ormai non ha molto da invidiare a quello dei top player, categoria in cui non è affatto peregrino includerlo. “In un certo senso è differente rispetto alle altre finali, ma quando si tratta di andare in campo ti ritrovi a pensare semplicemente… che è una finale. Il telefono è pieno di messaggi: la mia famiglia, la mia ragazza, poi con calma risponderò a tutti. Però non sto qui a festeggiare perché domani c’è un altro match“. Sì, però un pensiero meno razionale deve averlo avuto subito dopo il match point. “Ho pensato a me stesso e alla fatica che ho fatto per arrivare qua. Sono ancora più felice per le difficoltà che ho avuto dopo l’infortunio. Non mi voglio fermare, non è finita, ma sento tanta volontà di tornare e di essere più forte di prima. Devo continuare così”.
Gli chiediamo se al momento dell’infortunio – ricordiamo che Berrettini ha subito uno strappo ai muscoli addominali durante l’Australian Open – avrebbe mai scommesso di trovarsi qui, oggi, finalista a Madrid e nuovo numero otto della Race (fresco di sorpasso ai danni di Sinner). “In Australia non ricordo a che punto fossi nella Race, ma ricordo che ero contento di essere partito bene. Pensavo di rientrare più facilmente di così, invece è stata tosta. No, non immaginavo di fare finale a Madrid: anche se ho sempre saputo che le condizioni qui sono buone per me, una volta vista la gravità dell’infortunio non pensavo di mettere tutte queste partite in fila e giocare a questo livello“. Giova ricordare che questa è appena la sua prima partecipazione al main draw del torneo di Madrid.
Matteo approfondisce poi le sensazioni del periodo immediatamente precedente e successivo all’infortunio. “Ho lavorato duro in pre-season, ma non mi sentivo così bene in campo. Sapevo però che il lavoro avrebbe pagato, in qualche modo, e infatti quando ho iniziato ad allenarmi in Australia, durante la quarantena, io e Vincenzo ci siamo detti ‘Ok, ora sto giocando bene’. Per questo motivo ho preso così male la notizia dell’infortunio: mi sono detto ‘E adesso, di nuovo? Devo ricominciare tutto da capo?’. Decisivo è stato l’apporto di chi gli sta attorno. “A volte è questione di mantenere alta la fiducia. C’è stato un momento in cui Ivan Ljubicic, il mio manager, mi ha detto che credeva davvero in me. Queste sono cose che aiutano, soprattutto quando arrivano da qualcuno che come lui ha avuto una carriera incredibile. In ogni momento ho sentito il supporto del mio team“.
Berrettini ha sicuramente dimostrato una forza d’animo non convenzionale, ma alla fine le partite si vincono (soprattutto) con la racchetta. Ed è rilevante analizzare come sia riuscito a rendere privo di armi un giocatore solido e in crescita come Ruud, affrontato tre volte negli ultimi otto mesi. “Credo di aver giocato una partita molto simile a quello dello US Open, ho sempre avuto la sensazione di stargli sopra. La mia risposta oggi è stata di alto livello e lui invece ha fatto fatica. Ci affrontavamo per la quarta volta, lo conosco bene e lui conosce me, ma io stesso non mi aspettavo una prestazione del genere. Quando entri in campo sai di poter rispondere in un certo modo, ma alla fine non sai quanto bene. Credo che la chiave sia stata aver messo sempre pressione sul suo servizio, anche sulla prima, perché so che a lui piace avere tempo per girare attorno al dritto“. Che poi è la stessa cosa che piace a Berrettini, oggi molto più abile a ritagliarsi spazi e tempi per esplodere il dritto anomalo.
Contro Zverev sarà una partita diversa. Più difficile sicuramente, e la capacità di far partire con costanza lo scambio in risposta sarà ancora più importante. “Cosa ricordo delle nostre sfide (sono tre, il bilancio dice 2-1 Zverev, ndr)? Ricordo che è molto difficile rispondergli! Le partite giocate a Roma (due, nel 2018 e nel 2019, una vittoria per parte, ndr) sono state diverse, per via delle condizioni, mentre a Shanghai il campo era molto veloce e credo che il tetto fosse chiuso. Lui semplicemente servì meglio di me e mi fece un break per set. Domani sarà una partita simile. Lui ha battuto Rafa e Dominic, è vero, ma anche io sono arrivato in finale. Alla fine, si affrontano i due giocatori che hanno dimostrato di essere più forti“.