Non è successo granchè questo mercoledì al Roland Garros che io non abbia già detto nel video. Avevo aspettato che Serena Williams finisse il suo match con Buzarnescu per registrarlo, perché se avesse perso avrei dovuto parlarne. Invece ha vinto con un vincente 6-1 il terzo set e quindi non restavano tanti argomenti al di là del pareggio azzurro di giornata, Fognini vincente in tre set e Trevisan sconfitta in tre (dopo essere stata avanti di un break in tutti e tre), di Nishikori che è stato in campo dieci set e otto ore fra Giannessi e Khachanov (il russo era avanti due set a uno), giusto per migliorare ancora il suo record straordinario nei match chiusi al quinto set: 27 vittorie su 33 maratone.
Il bello è che tutti sembrano considerarlo un tennista dal fisico fragile… perché spesso è rotto. Spesso si è ritirato. Ma il punto è che se sta bene il giapponese ha una solidità di testa che hanno in pochi. “Mi è sembrato d’aver giocato cinque match, non due, a un certo punto pensavo che non ce l’avrei fatta…ero e sono stanchissimo, poi mi sono ritrovato al quinto set e a quel punto non si molla…ci si prova”.
Innanzitutto vorrei fare i miei migliori auguri a Rafael Nadal, che oggi compie 35 anni – più di un terzo dei quali passati a vincere Roland Garros.
Poi vorrei tornare con questo editoriale sulla questione Osaka.
Quello che è successo non può non essere dispiaciuto a tutti. È ovvio che la vicenda poteva essere gestita meglio. Da un po’ tutti. Da Naomi che non aveva mai fatto trapelare di aver sofferto di depressione – addirittura dal 2018 all’epoca della tumultuosa finale con la Williams quando Serena dette di fuori di matto e a Naomi fu tolta perfino la gioia di esultare come avrebbe meritato – e la cosa ha colto tutti di sorpresa, forse perfino il suo management. È difficile pensare che una tennista che vince quattro finali di Slam su quattro possa essere un po’ fragile di testa. Ora lo dicono tutti che un conto può essere solidi di testa quando si tira dritto e rovescio e un altro quando si deve interfacciarsi un giorno sì e un giorno no con tante persone che ti fanno delle domande su tutto e di più, stupide come intelligenti, originali come banali, nuove come ripetitive.
Per lei questo era – è un problema – per tutti gli altri, o quasi, è stato una routine magari non sempre piacevole ma che faceva parte del gioco. Della participazione a un torneo che impone certe regole. Giuste o sbagliate che siano, Naomi avrebbe potuto parlarne per tempo al suo manager, alla WTA, a chiunque potesse magari studiare un modo per aiutarla. C’è chi soffre di claustrofobia, che non riesce a entrare in un ascensore, mica si può persuaderlo ad entrarci solo perché lo fanno quasi tutti gli altri. Le crisi di panico allora? Coloro che ne soffrono non trovano facilmente il rimedio a quella sindrome.
Insomma, con tutto il rispetto che la questione merita, c’è stato un indubbio difetto di comunicazione. E di timing. Si sarebbe potuto affrontare la questione con un parere medico circostanziato? Non lo so, ma non ci si è neppure pensato. Forse per scetticismo, per scarsa fiducia nella comprensione altrui. Però comportandosi così si è fatto certamente peggio.
Mai tagliare un qualcosa che non si possa ricucire. Naomi, pur con tutte le attenuanti del caso e della sua incerta condizione mentale, si è indiscutibilmente messa con le spalle al muro da sola. In pratica non ha avuto alternativa che prendere la decisione poi presa: lasciare il torneo, andarsene.
La sua presa di posizione ha spiazzato perfino tutti i suoi colleghi che, pur rispettandola, hanno dimostrato di non capirla e di non condividerla. Non sono stati i giornalisti, come ho letto da qualche accusa superficiale, a considerarla responsabile di lesa maestà nei confronti di una regola che fa parte del gioco, della professione, di una tradizione da sempre esistente. Direi che sono stati per primi gli stessi giocatori a non condividerla. E non giocatori che avevano avuto il tempo per mettersi d’accordo, per concordare una linea comune. Ognuno ha detto le stesse cose, da chiunque fosse interpellato. E nessuno dei giocatori se l’è presa con i media. Quindi quanto ho scritto e sto scrivendo non è una difesa della casta che vuole proseguire ad avere le conferenze stampa come sempre. Che magari quanto è accaduto serva ad apportare quei correttivi che si crederanno necessari.
In 160 tornei dello Slam, e almeno altri 400 tornei seguiti fra Masters 1000, Finali ATP, per un numero totale di giorni che oltrepassano i 20.000, credo di aver assistito a 100.000 conferenze stampa e interviste. E ne ho viste sentite di di tutti i colori. Domande, e risposte, di tutti i tipi. Interessanti, meno interessanti, istruttive, diseducative, divertenti, noiose… insomma sbizzarritevi voi lettori nella scelta di tutti gli aggettivi possibili. Chi oggi dice che i tempi sono cambiati, che ormai bastano i social a sostituire le conferenze stampa, tutte le conferenze stampa, non si rende conto della sciocchezza che dice.
Una volta i giornalisti avevano rapporti diretti con i giocatori, non c’erano agenti a ostacolarli, media PR dei circuiti, guardie del corpo, security varie. Oggi l’unico modo perché un giornalista possa raccontare a chi ha visto una partita in TV qualcosa di più di quello che già sa è presenziare a una conferenza stampa oppure leggerne i transcript. Altra via non c’è. Pensare di abolirla vorrebbe dire lasciare in mano soltanto alle dichiarazioni pre-confezionate di agenti e uffici stampa, o dei social che ti ammanniscono quello che vogliono, un certo tipo di informazioni, di conoscenze. Ciò danneggerebbe, alla fine, per primi i giocatori, il loro appeal mediatico, i loro sponsor.
Nessun dubita che l’inattesa esternazione di Naomi, quell’improvviso mettersi a nudo di fronte al mondo del tennis, dei colleghi, del pubblico, della stampa, sia stata sofferta. Molto sofferta. Ma i tempi e i modi in cui l’ha fatta sono frutto di un suo errore di valutazione sulle reazioni che avrebbe ricevuto. Cui è seguito un successivo errore: quello di negarsi a chi voleva raggiungerla per ottenere almeno un minimo (dovuto!) di spiegazione.
Errori da ragazza ancora giovanissima alle prese con problema più grande di lei. Ma tali da provocare una reazione “muro contro muro”, perché se si entra come un elefante in un negozio di cristalleria il meno che ti puoi aspettare è che il proprietario del negozio reagisca in modo anche virulento, anche eccessivo.
Se non avesse fatto il secondo errore di cui sopra, probabilmente Gilles Moretton e soci l’avrebbero ascoltata, avrebbero evitato di uscire immediatamente allo scoperto con dichiarazioni pubbliche e minacciose, avrebbero trovato un modo più soft per affrontare la situazione. Ma fino a lunedì sera Naomi non ha fatto conoscere il suo problema e le ragioni del suo comportamento. E le motivazioni inizialmente addotte da Naomi non sono subito apparse credibili. Domande ripetitive, irrispettose dello status psicologico di un atleta. Un atleta professionista che non ha soltanto il piacere-onere di giocare bene a tennis, ma anche quello di sostenere e promuovere il proprio sport per favorirne lo sviluppo. Per accrescerne la popolarità.
Offrirsi al publico, attraverso il contatto anche ripetuto con i media (quando si ha poi sempre la possibilità di dire “No comment, passiamo ad altra domanda”) non è una situazione venutasi a creare per caso. Modificabile? In parte sì, ma non prendendola di petto a tre giorni dall’inizio di uno Slam e pretendendo un tipo di trattamento diverso da quello accettato da tutti gli altri colleghi. Fa parte del lavoro doversi rendere disponibile dopo ogni match anche per un’ora alla volta a tv, radio, giornali. Porta via anche tempo, certo. E magari a chi ha appena perso per l’ennesima volta su una determinata superficie sentirsi instillare il dubbio che forse quella superficie non fa proprio per lei, può anche determinare un complesso, un piccolo trauma.
Penso, ad esempio, a quante volte Sara Errani si è sentita chiedere del suo servizio, se non potesse fare qualcosa per migliorarlo. Di sicuro sarà diventato un incubo e probabilmente ne avrà a che patito le conseguenze, però ragazzi dello sport, del competere a livello professionistico, la solidità mentale è come un dritto e un rovescio. Chi riesce a reagire a una serie di sconfitte, a una serie di critiche è più forte e competitivo di chi non ci riesce.
Proprio in questi giorni ho sentito ripetere da Sinner e Musetti, quasi si fossero fatti le confidenze, “quel che conta è la testa, il mio colpo migliore contro Herbert è stata… la forza mentale” ha detto Sinner (che pure aveva avuto anche una notevole dose di fortuna, come quella che il suo avversario ha avuto meno forza mentale di lui). E Musetti, quasi come le stesse parole, gli ha fatto eco, giustificando il suo ottimo avvio contro Goffin con “una questione di testa, mi ero preparato così”. La testa conta in campo e fuori dal campo. Anche alle avversarie più amiche e comprensive della Osaka non sarebbe andato a genio di dover accettare supinamente di continuare a dare la propria disponibilità (non meno di 100 ore l’anno per chi giochi 80 partite) e lei no, senza aver neppure fatto trapelare minimamente un problema, un serio e certificato problema di salute? La regola è uguale per tutti.
Soffre se le dicono che sull’erba e sulla terra rossa non è forte come sul cemento? Beh, ma allora Pete Sampras, campione di 14 Slam (7 a Wimbledon) che sulla terra rossa del Roland Garros non è approdato che una sola volta in semifinale, avrebbe dovuto rifiutarsi di parlare di terra rossa per sempre e non venire dopo ogni sconfitta a Parigi a rispondere alle domande dei giornalisti? E Serena Williams (che ha parlato di Osaka) quante ne ha vissute? Dacché ha perso con Roberta Vinci, dacché diventata mamma, dacché ha perso quattro finali di Slam da quattro avversarie che avrebbe dovuto battere e sempre in due set?
Anch’io ho visto diverse tenniste scoppiare in lacrime in conferenza stampa, dopo una sconfitta o una domanda rozza e poco sensibile, perché magari gli era morto un genitore o perché era stata lasciata dal promesso sposo e un giornalista aveva voluto mettere il dito nella piaga. Ci sta. In tutti i mestieri del mondo c’è chi è più bravo e sensibile a fare domande e chi lo è meno. Come sul campo da tennis c’è chi gioca meglio e chi gioca peggio. Ma ripeto: non si può fare di tutte le erbe un fascio, quando si è assistito a 100.000 conferenze stampa e molte, moltissime, sono state memorabili. E utili alla conoscenza del personaggio che ci stava di fronte. L’opinione pubblica ha diritto di sapere quanto più sia possibile di un campione che vede giocare per centinaia di ore in TV e dal vivo.
Chiaro che Naomi è un essere più fragile e vulnerabile di quanto tutti sospettassimo e che il suo benessere ci deve stare a cuore. I problemi della mente non possono essere trattati superficialmente da posizioni… “oggettive”. Sono soggettivi per definizione. Io spero che Naomi li possa risolvere, ma di sicuro ora sono ancora pesanti, direi più pesanti di quanto lo fossero una settimana fa. Mi sorprenderei se riuscisse a risolverli prima di Wimbledon che è alle porte, fra quattro settimane.
Ma mi ha sorpreso così tanto quel che è successo, da parte di una tennista che ha sempre avuto – oltretutto – i più grandi apprezzamenti dai giornalisti di tutto il mondo. Djokovic, al cospetto di Federer e Nadal, potrebbe dire di essere stato spesso oggetto di cattiva stampa – per un motivo o per un altro, più giustificati e meno giustificati – ma Naomi ha sempre goduto di buona, ottima stampa. Questo avvalora la sensazione che il suo sia davvero un problema psico-mentale davvero serio. Di non facile e immediata soluzione. Ora più che mai.
Io in mezzo secolo di professione e un migliaio di tornei non mi ero mai trovato a vivere una situazione del genere, anche se ricordo il caso di Mardy Fish. Il tennista statunitense, tra il terzo turno e gli ottavi dello US Open 2012, vide aggravarsi le sue condizioni di salute mentale che, come avrebbe poi raccontato, erano già abbastanza precarie. Fish ebbe un attacco d’ansia durante il match (vinto) contro Simon e decise di non scendere in campo agli ottavi contro Federer; avrebbe poi giocato solo altre quindici partite in tre anni, prima del ritiro definitivo allo US Open 2015. Nonostante il precedente di Fish e altri che spesso vengono raccontati grazie all’iniziativa Behind The Racquet, questa storia di Naomi ha avuto davvero uno svolgimento particolare.
TORNANDO AL TORNEO – Oggi speriamo non piova. Ieri il meteo francese ha ciccato clamorosamente il suo pronostico. Non è caduta una goccia. Oggi chissà. Io penso che potremmo forse assistere ad una giornata trionfale, con sei vittorie azzurre. Quella di Camila Giorgi su Gracheva, di Berrettini su Coria, di Musetti su Nishioka, di Seppi su Kwon, di Cecchinato su de Minaur, di Sinner su Mager (ma se succede che vince Mager su Sinner sempre sei restano).
Vedo più perdente che vincente la Paolini con la Sakkari. Ma se quei cinque ragazzi vincono, avremmo sei italiani al terzo turno e due derby, Berrettini-Seppi e Cecchinato-Musetti che garantirebbero due italiani in ottavi (come già un anno fa) ma anche un terzo assai possibile, Fognini se superasse Delbonis da Fabio battuto cinque volte su otto.
Se penso che abbiamo invidiato per anni il tennis francese che qui aveva 17 giocatori in tabellone (e 9 in qualificazione tutti bocciati) e per la prima volta nella storia del Roland Garros ne ha solo tre al secondo turno (più 4 ragazze di 11 all’avvio e di altre 7 in quali, anch’esse tutte bocciate), mi stropiccio gli occhi. I “cugini” per ora ci battono soltanto come numero di top-100: loro ne hanno 11, noi 10. Ma è questione di poco tempo. Molti dei loro sono quasi tutti sull’orlo della pensione, Tsonga, Gasquet, Monfils, Simon. I nostri sono giovani, giovanissimi e rampanti.