Preferisco di gran lunga scrivere dopo aver visto un match che prima, quando si rischia di scrivere tanta fuffa e in realtà non si può quasi mai azzardare un pronostico adeguato se i giocatori di cui vogliamo parlare, Matteo Berrettini e Hubert (Hubi) Hurkacz, hanno risultati che giustificherebbero la vittoria dell’uno come dell’altro. Anche perché se aveste avuto la pazienza di guardare il video registrato con un grande amico e grande professionista polacco, telecronista di Polsat TV, sapreste già quasi tutto quel che può servire sapere.
Che il match si preannunci molto incerto lo dicono i precedenti, uno a uno. Lo dice il curriculum più recente di Matteo fra Queen’s e qui, anche se non ha affrontato top-ten. Lo dice quello di Hubi che qui a Wimbledon invece di top-ten ne ha battuti due (Medvedev e Federer), dopo che già contro Djokovic nel 2019 si dimostrò perfettamente in grado di giocare alla pari con il serbo per due set davvero eccellenti, perdendo il primo per 7-5 e vincendo il secondo al tiebreak. E si sta parlando di Djokovic, che poi vinse il torneo nel modo che sappiamo (e che non fa dormire i tifosi di Federer).
A leggere il ranking, che si riflette sul seeding, n.7 Berretto e n.14 Hurkacz, si direbbe che il favorito sia il romano e i bookies lo confermano se si dicono disposti a pagare la vittoria di Hurkacz tre volte la posta. Però io colgo lo spunto che mi dà un lettore e che mi ammonisce a non fare l’errore che commisero in parecchi alla vigilia della finale del torneo di Miami, quando a leggere i media italiani e ad ascoltare i cosiddetti “talent” televisivi di casa nostra, sembrava che Jannik Sinner dovesse farsi un sol boccone di Hurkacz nonostante che il tennista polacco fosse emerso da un tabellone molto più impegnativo rispetto a quello del nostro: aveva fatto fuori Shapovalov, Raonic, Tsitsipas, Rublev. Mica pizza e fichi.
Eppure, con grande faciloneria, non c’era chi – bookies inclusi – attribuisse a Hurkacz i favori del pronostico. Chissà – sospetto a sensazione e senza alcuna pretesa di essere nel giusto – … ma se Hurkacz non avesse quello strano cognome che sembra un’esclamazione (o un’imprecazione) per noi improbabile e… non fosse polacco, ma magari americano o tedesco, cioè un tennista di quei Paesi che hanno maggiore tradizione tennistica, la gente lo stimerebbe e temerebbe di più. Già, quasi che un tennista polacco non ispiri fiducia. Mi sa proprio che qualcuno abbia dimenticato Iga Swiatek, campionessa al Roland Garros, o “la maga” Aga Radwanska cinque volte semifinalista in vari Slam, finalista a Wimbledon (perse da Serena Williams), o anche tennisti come Wojtek Fibak che è stato top ten…
E forse il bravo, gentile, seppur laconico Hubi – ascoltate il suo ritratto nel video che ho registrato in italiano insieme al grande esperto telecronista polacco di Polsat Tomasz Tomaszewski, vero poliglotta che lo ha conosciuto da ragazzino – sarebbe stato preso in maggior considerazione se non avesse dimostrato limiti paurosi sulla terra battuta dopo la vittoria a Miami (ma anche perché vittima di un virus che Chris Clarey sul NewYork Times dice essere stato il Covid ma forse sbagliandosi). Cioè laddove l’unico giocatore sconfitto in sette incontri giocati in vari tornei dopo Miami è stato il nostro Fabbiano a Montecarlo. Per il resto sei sconfitte al primo turno.
Eppure sappiamo, ricordiamo come andò a finire a Miami a marzo fra Sinner e Hurkacz. E tanto per cambiare molti media gettarono la croce addosso al giovane Sinner, più che a riconoscere i grandi meriti del polacco di Wroclaw ingiustamente sottovalutato. Guai quindi, adesso, a vendere la pelle dell’orso polacco prima che Berrettini lo abbia steso sull’erba del Centre Court a suon di ace e di dritti terrificanti. Invece di lambiccarmi ulteriormente il cervello, un po’ per pigrizia ma anche per onesta ammirazione per quanto scrive con grande fluidità sulla sua quotidiana newsletter omnisport Angelo Carotenuto – www.loslalom.it (se davvero vi abbonerete non ve ne pentirete) copio e incollo un bel po’ delle sue righe.
“C’è sempre un’attesa supplementare alla fine delle attese, più breve, minima, di cui non ci curiamo. Quella del tennis italiano a Wimbledon, nella coda di un corpo lungo sessantuno anni, è durata tre ore e tre minuti, un periodo dentro il quale ci stanno una volta e mezza Italia-Spagna di calcio e quattro volte e mezza Italia-Serbia di basket, ci stanno quarantasei inseguimenti di Filippo Ganna in pista novantuno round e mezzo di Irma Testa, centocinquantasei pole position di Leclerc a Montecarlo, trecentosettantaquattro record del mondo di Benedetta Pilato a rana, mille e novantotto sprint di Marcell Jacobs. Tutta la galleria della collezione primavera-estate dello sport italiano, a due settimane dalle Olimpiadi.
Il tennis italiano aspettava qualcosa, qualcuno oltre i Doherty Gates dopo il Nicola Pietrangeli del 1960. Matteo Berrettini si è fatto carico delle attese e della coda – la parte più rischiosa, giacché nessuno garantisce che l’epilogo metta fine alla premessa. Ha fatto se stesso con 12 ace e il 66% di prime di servizio, una delle quali liberata – o forse innescata – a 222 km orari, con 68 punti su 90 ricavati da esse e 23 su 46 dalle seconde, più un’altra quarantina in ricezione. Ha salvato 9 delle 12 palle break concesse. Ha vinto la decima partita di fila sui prati di Londra, compreso il Queen’s. È venuto a capo in quattro set dell’amico canadese Félix Auger-Aliassime. La seconda semifinale italiana della storia a Wimbledon è la sua seconda personale in uno Slam dopo quella di New York. Poteva essere un bagliore isolato e sparuto, una meteora. Invece era una cometa. Portava un segno. Ha raggiunto Corrado Barazzutti ed è a una semifinale da Adriano Panatta, che ha un titolo a Parigi ma quando nel 1979 perse da DuPre il quarto di finale sull’erba, visse la cosa come un affronto, o peggio: come un anticipo di tramonto”.
Ma nel suo Slalom.it Carotenuto non ha scritto e raccolto pareri soltanto su Matteo Berrettini. Si è soffermato ieri anche su Roger Federer in un pezzo intitolato: “Lamento per il Roger eliminato/Come sarà l’ultimo punto di Federer”. Credo valga la pena leggere questo stralcio, insieme ai vari commenti che è andato a cercarsi spaziando fra giornali italiani, francesi e inglesi per una rassegna stampa godibilissima.
“L’ultima volta che aveva perso qui, due anni fa dopo due match point, aveva giocato un colpo finale senza epica. Una stecca di dritto che aveva mandato la palla a sbrecciare l’aria, un tiro così volgare e terreno da non poter essere la cartolina perfetta di un congedo. Era una ragione in più per darsi altro futuro. Non poteva andarsene a quel modo. Non poteva lasciare negli occhi dei fedeli della sua chiesa, ma nemmeno in quelli dei pochi eretici mai convertiti, un tale scartiloffio, un circoletto nero dopo tanta vita dedicata all’armonia.
Mentre a un certo punto ieri pareva sbeccato e irreparabile il terzo set con il polacco Hurkacz – e insieme a esso tutto il quarto di finale – s’è messo tra i piedi il solito pensiero che ormai ci raggiunge mentre Federer perde le sue partite. E se fosse l’ultima? E se alla fine si impossessa del microfono e commette l’insano gesto, a un mese dal compleanno numero quaranta? Uno gli guarda la fascia tra i capelli, il marchietto sulla maglia e con l’ottimismo della ragione si dice che ha ancora troppi contratti firmati per qualche anno: non lo farà. Ma poi alla fine che ne sappiamo davvero di quello che passa per la testa a chi ha vinto Venti Slam e sta per prendere 0-6 da un ragazzone che andava alle scuole elementari quando il duca di Kent consegnava a lui la prima delle otto Coppe. Portava ancora i capelli lunghi e gonfi di lato, come un paggio, un ciambellano, alla festa si presentò con un improbabile papillon rosso, era ancora un qualunque Roger e non già l’unico Federer, era ancora così comune, così distante dallo scopo di raffigurare e citare la peRFezione.
Come dovrà essere l’ultimo colpo di Federer, quando arriverà? Se potesse saperlo in anticipo, forse lo preparerebbe. Ne sceglierebbe uno coerente con il suo cammino. Una veronica, un colpo tra le gambe, una discesa a rete e una volée, una smorzata, una cosa elegante, una cosa bella. Non questo con il quale ha concluso pure stavolta, un drittaccio scaraventato in corridoio come una barella della malasanità, uno dei trentuno errori gratuiti, all’altezza dello scorfano partorito con uno schiaffo al volo, in rete sul finire del secondo set, quando s’è capito che potevamo pure cambiare canale.
Come sarà allora? Forse un errore, altrimenti non sarebbe l’ultimo. Oppure il colpo vincente di un avversario. Ecco. Il colpo vincente di un avversario. Un passante. Un ace. Una sentenza. Un’esecuzione. Christopher Clarey sul New York Times ha detto che a Federer ieri ‘è mancata la magia mentre tirava dritti, sbagliava le volée, lottava con l’equilibrio e il gioco di gambe’. Stefano Semeraro su la Stampa ritiene che questo sia il tramonto definitivo, una resa all’anagrafe e una coltellata al cuore, anche se ‘il Genio ci ha abituato a risurrezioni infinite’. Ha visto ‘un Federer a tratti inguardabile. Ora, forse, è arrivato il momento di organizzare un addio all’altezza di una carriera leggendaria’.
Sophie Dorgan su l’Équipe ha scritto che ‘nel suo silenzioso giardino inglese si sono sentite le nocche scricchiolare e i pensieri di Federer svanire nel dubbio, sulla crisi di mezza età. Per dieci giorni abbiamo creduto in un miracolo. Vent’anni di grandi imprese ci hanno sottoposti a una visione distorta. A quasi quarant’anni e dopo due operazioni al ginocchio, lo svizzero ha già fatto una cosa straordinaria qualificandosi per il suo 58esimo quarto di finale di uno Slam. Nel suo mondo di prima, era una cosa banale. Oggi è un traguardo. Quando un colpo facile si è trasformato in una scivolata al tie-break, quando ha lasciato passare un proiettile di trenta centimetri, quando ha sbagliato tutte le volée in estensione, durante tutti questi piccoli momenti, abbiamo cercato invano l’aereo e brillante Federer. Il suo avversario lo ha schiacciato’.
Simon Briggs sul Telegraph si fa la domanda a cui nemmeno Federer ieri ha saputo replicare. ‘Lo vedremo giocare di nuovo qui? Come con Andy Murray e le sorelle Williams, questa è una domanda a cui è difficile dare una risposta. Ma se fosse stata l’ultima volta, non sarebbe stata così cattiva. Nonostante il risultato a senso unico (6-3, 7-6, 6-0) che ne ha fatto la sconfitta più pesante che abbia mai subito su questi prati, Federer ha giocato una partita dignitosa. L’ovazione prima del suo ultimo servizio è stata da brivido‘”.