Giocherà la prima finale della sua vita a Wimbledon, la seconda in carriera in uno Slam. Incredibilmente, considerata la vistosa propensione al tennis sui prati, finora i ciuffi di Church Road l’avevano sempre respinta addirittura prima dei quarti di finale. Ashleigh Barty si sta rifacendo con gli interessi: contenderà il titolo a Karolina Pliskova in coda a un percorso perlomeno convincente, grossomodo passeggiato avendo ceduto appena un set nel commovente addio ai prati di Carla Suarez Navarro e restituendo una costante sensazione di placido controllo delle avversarie.
L’ultimo ostacolo saltato, quell’Angie Kerber già campionessa ai Championships improvvisamente ridestatasi da un lunghissimo letargo, peraltro battuta in due rimontando un secondo set messosi malissimo, ha confermato le sensazioni percepite lungo gli ultimi quindici giorni: nella costante imprevedibilità del tennis femminile una volta caduto il regno di Serena Williams, Ash è una numero uno solida, in grado di sostenere il gravoso fardello del pronostico favorevole. Chiusa, si spera definitivamente, la parentesi pandemica, Barty si è espressa su livelli altissimi, e gli infortuni nell’intralciarla hanno potuto più delle colleghe. Per la corona, e un importante passo nella storia del tennis moderno, manca un passo. Ma il momento plastico in cui si è cristallizzato il nuovissimo status di finalista ai Championships, quello si può già riporre con cura nel cassetto, insieme ai ricordi belli.
L’ultimo punto, le mani nei capelli, la pelle d’oca. “Cosa ho provato un secondo dopo aver chiuso il match? Direi sollievo, soprattutto sollievo. Poi una gioia incredibile, avvolgente, totale. Voglio dire, mi sono resa conto in quell’istante di avere per davvero agguantato la finale di Wimbledon, una cosa pazzesca. Ho tenuto un gran livello per tutto il match, forse uno dei migliori della mia vita. Ho accelerato quando ne ho avuta l’opportunità, controllato gli scambi quando ne ho sentita la necessità. Dopo l’ultimo punto la sensazione è stata incredibile“.
Standard certamente eccellenti per la capoclassifica, per nulla turbata dall’elevatissimo peso della posta in palio. “Credo di essere scesa in campo pronta a non farmi condizionare dall’importanza del momento. Durante l’anno lavoriamo tanto sulla gestione mentale delle varie situazioni di gioco, ma ammetto di essere abbastanza brava a fare un passo indietro, a distaccarmi dalla tensione, a pensare che dopotutto sto affrontando una partita di tennis. Prima di sbucare sul Centrale mi sono imposta di divertirmi, godermi il momento. Quando ne sono uscita in effetti mi ero divertita e avevo dato tutto. Sarei stata felice e contenta in ogni caso“.
La faccenda simbolica, quella che maggiormente coinvolge e affascina, riguarda sempre l’eredità di Evonne Goolagong, l’ultima giocatrice aussie a imporsi a Wimbledon, quarantuno anni fa. Il misticismo in qualche modo si lega anche alla fatidica cifra tonda: cancellata dalla pandemia l’edizione 2020, di anni tennistici dal celebre trionfo ne sono trascorsi quaranta. “Ho sentito Evonne prima dell’inizio del torneo, in coincidenza di un anniversario tanto importante rappresenta un grande privilegio aver l’opportunità di tributarle qualche vittoria, sperando di poterle dedicare quella più importante“.
Sarebbe un trionfo eclatante, più di quanto non lo possa essere un’ordinaria cavalcata vincente all’All England Club, considerati gli ostacoli affrontati in fase d’avvicinamento. Soprattutto nella seconda parte della stagione su terra, culminata con il ritiro al secondo turno del Roland Garros forzato da un problema al fianco e alla coscia sinistra. “Ho avuto un’ottima annata, ma anche qualche infortunio di troppo. Dal momento in cui ho tristemente dovuto abbandonare Parigi al mio esordio qui a Wimbledon sono trascorsi solo ventitré o ventiquattro giorni: francamente poco per rimettere in sesto il mio corpo. Posso contare sul migliore staff al mondo, questo sì, ma se tre settimane fa mi avessero detto che avrei giocato la finale di Wimbledon li avrei presi per pazzi!“.
Pazzi o no, Ash è in finale, un sogno. Ma favole a parte, la transizione dall’onirismo puro alla concreta chance di afferrare le ambizioni non avviene per magia. “Occorre fare dei passi, porsi mano a mano nelle condizioni di avvicinare gli obiettivi, mettendo in conto qualche rovinosa caduta, che spesso è salutare. Ho varcato per la prima volta questi cancelli dieci anni fa, da Junior, ed è stata un’esperienza decisiva, lo sarebbe stata anche qualora non avessi vinto il titolo. Allo stesso modo sono state importantissime le sconfitte del 2018 e 2019 (rispettivamente al terzo turno contro Daria Kasatkina e al quarto con Alison Riske, NdR): non ho giocato bene in quelle occasioni, tutt’altro. Tuttavia, sono fermamente convinta della necessità di passare attraverso momenti bui per crescere, conoscere sé stessi, evitare di ripetere quelle esperienze in futuro. Ogni cosa ha concorso a formare la persona che sono, la finalista di Wimbledon di oggi“.
Ha giocato un gran torneo Ashleigh, dando la netta sensazione – fisiologici cali transitori a parte – di avere tennis e spalle sufficientemente larghe per poter onorare il ruolo di favorita e di più alta graduata in corsa. L’ultimo passo di un Major fa sempre storia a sé, ma l’avvicinamento è stato grandioso, e resterà tale comunque vada. “Rispetto agli scorsi anni ho messo insieme una formazione più ampia e articolata. Come detto, ogni evento nel tennis, bello o brutto che sia, concorre a costruire un giocatore e una persona, in genere migliorandola. Nello specifico, in quest’edizione penso di aver giocato bene, di aver fatto tesoro delle precedenti esperienze: soprattutto a Wimbledon è un fattore decisivo, di grande importanza, perché occorre sapersi adattare come in nessun altro luogo. Le condizioni di gioco cambiano di giorno in giorno, il campo diventa mano a mano più duro, più veloce. È un posto unico, speciale anche per questo, lo capisci entrando per la prima volta da quei cancelli e ogni volta la magia è la stessa“.
Accresciuta dalle esperienze precedenti, of course. Sarà favorita, Barty, nella finalissima di oggi (ore 15): per ranking, tennis e momento storico. È anche vero che nessuno aspettava Karolina Pliskova, eppure. Una finale è una finale, ma come ci siamo azzardati a scrivere commentando il successo della numero uno nei quarti con Krejcikova, con questi lumi di luna per Ash non sollevare il Rosewater Dish (è il nome del piatto riservato alla vincitrice di Wimbledon) non dovrebbe essere un’opzione.