Qui l’articolo originale del febbraio 2021
Steve Johnson era nella sua casa in Orange County, California, quando tutto intorno a lui ha iniziato a girare. Il tennista americano aveva appena terminato un allenamento estenuante e pensava di avere le vertigini perché non aveva mangiato abbastanza prima. Pochi minuti dopo, mentre attendeva il suo turno in fila in un negozio di bagel, Steve ha iniziato a tremare. È corso fuori dal negozio e si è seduto in macchina, confuso su ciò che stava capitando al suo corpo. “Stavo impazzendo. Il mio battito cardiaco sembrava andare a 200 miglia all’ora”, racconta il trentunenne Johnson ricordando l’incidente avvenuto nel gennaio 2018.
Una volta rientrato nel negozio, quei terribili sintomi sono tornati a manifestarsi. Johnson ha chiamato la sua fidanzata e sua madre, dicendo loro che si sentiva come se stesse avendo un attacco di cuore e che aveva bisogno di andare in ospedale. Lì ha appreso di aver avuto un attacco di panico. “La mente può giocarti brutti scherzi, ti fa percepire le cose come peggiori di quello che realmente sono”, dice Johnson. “Ho provato senza alcun dubbio una sensazione sconosciuta”.
Steve era sotto pressione in quel momento, avendo perso tre delle prime quattro partite giocate all’inizio dell’anno. Soprattutto, però, era ancora alle prese con l’elaborazione della scomparsa improvvisa di suo padre, Steve Johnson Sr, deceduto a causa di un attacco di cuore otto mesi prima. Johnson Sr. ha messo per la prima volta una racchetta nelle mani del figlio quando Stevie aveva due anni ed era ancora un bambino che correva per il cortile di famiglia con palloncini e palloni da spiaggia. Da ragazzo, Stevie trascorreva lunghe giornate al circolo di suo padre, la Steve Johnson Tennis Academy, divenendone rapidamente il miglior giocatore e vincendo tornei contro ragazzi più grandi di lui di qualche anno.
Johnson Sr. ha smesso di essere il suo coach quando Stevie è andato all’università (a Southern California), ma era in tribuna per vedere suo figlio vincere due campionati NCAA consecutivi in singolare maschile e finire la sua carriera universitaria nel 2012 con 72 vittorie di fila. Quattro anni dopo, Johnson Sr era insieme a suo figlio Stevie per festeggiare il primo titolo ATP vinto a Nottingham, in Inghilterra. “Il ricordo di quel momento è chiaro come il sole nella mia mente”, dice Johnson.
Nel maggio 2017, Stevie si trovava all’aeroporto internazionale di Los Angeles quando ha notato una chiamata in arrivo da sua madre. Ha risposto con nonchalance, supponendo che volesse solo augurargli di fare un buon volo, e invece ha ricevuto una notizia terribile: suo padre era morto nel sonno all’età di 58 anni. Johnson era sotto shock, ma ha continuato la sua stagione, andando in Svizzera la settimana seguente per il torneo di Ginevra e poi a Parigi per il Roland Garros. In un’intervista post-partita in seguito alla vittoria su Borna Coric al secondo turno dello Slam non è riuscito a trattenere la sua commozione. “Non immaginavo che quelle emozioni sarebbero riaffioriate dopo quella partita”.
Johnson ha sofferto silenziosamente per il resto di quella stagione, dissimulando le proprie emozioni e affermando che tutto andava bene. “Non è facile quando stai cercando di far trasparire qualcosa di completamente falso rispetto a ciò che senti dentro”. Le persone a lui vicine, in particolare sua madre Michelle, cercavano di convincerlo a parlare con un professionista, ma Johnson pensava di poter capire cosa fare da solo e credeva che la terapia non gli sarebbe stata utile. Nel 2018, però, sono iniziati gli attacchi d’ansia, i cui sintomi sono particolarmente difficili da gestire durante le partite. “Il campo da gioco tremava e mi sembrava che lo stadio stesse girando”, racconta l’americano. “Non è una situazione divertente da affrontare mentre stai gareggiando”.
È diventato sempre più solitario, evitando ristoranti e impegni pubblici e preferendo rimanere a casa il più possibile. “Volevo stare solo in posti dove potevo sentirmi a mio agio. Vivevo nella paura del momento in cui sarebbe arrivato il prossimo attacco di panico, invece di cercare di comprendere il problema e affrontarlo”.
Alla fine, Johnson ha ceduto ai solleciti di sua madre e ha iniziato a vedere uno psicologo. Si era crogiolato nell’autocommiserazione per molto tempo, chiedendosi perché suo padre fosse dovuto morire in così giovane età. Attraverso la terapia è stato in grado di cambiare la sua prospettiva, e oggi racconta che è stato quando ha smesso di ingigantire tutti i problemi che le cose hanno iniziato ad andare nella giusta direzione.
Secondo Johnson il cambiamento essenziale è stato questo: “La cosa più importante è stata modificare quella conversazione che riecheggiava nella mia testa, focalizzandomi su quanto fossi fortunato ad avere un padre a cui importava di me, che amavo, con cui avevo un ottimo rapporto – tutte cose positive che stavo trascurando perché ero più interessato al perché tutto ciò fosse capitato a me. Una parte enorme della mia transizione verso la guarigione è stata quella di spostare quei pensieri e la loro elaborazione da negativi a positivi”.
Sebbene abbia trovato un modo per superare il suo dolore, Johnson sente ancora la mancanza di suo padre. I suoi occhi spesso virano su una foto incorniciata nel suo ufficio che ritrae loro due a Nottingham, abbracciati dopo la conquista del suo primo titolo ATP. Nel dicembre 2020, sua moglie Kendall ha dato alla luce il primo figlio della coppia, una bambina di nome Emma. Steven avrebbe voluto far incontrare la piccola e suo nonno: “Darei qualsiasi cosa per avere mio padre qui e renderlo parte di tutto questo”.
Ancora oggi, il tennista americano deve far fronte ad attacchi d’ansia occasionali, ma si verificano meno frequentemente. All’inizio di un attacco cerca di rallentare il più possibile il respiro e si focalizza nel portare la mente nel suo “happy place”, termine che ammette suonare come un cliché. “Seguo uno per uno i punti di una checklist per calmarmi e ritornare ad uno stato di tranquillità”.
Sa quanto ha tratto beneficio dall’essere vulnerabile e dall’essersi fatto aiutare da uno specialista, e spera che la sua storia possa aiutare qualcuno che sta soffrendo in silenzio. “Cercare di essere quel ragazzo che non vuol essere aiutato o che si sente come se non avesse bisogno di aiuto e può farcela da solo – questi sono atteggiamenti che non funzionano”, conclude Johnson.
Traduzione a cura di Giuseppe Di Paola