Non ci si tira fuori dalle difficoltà senza difficoltà, è banale sottolinearlo. Figurarsi a 19 anni, quando i risultati ti portano a un passo dalla top 15, raggiungi la finale di un Masters 1000 e inizi a sentir dire attorno a te che sei ormai pronto per vincere qualcosa di importante. Poi arrivano quattro sconfitte di fila, un piatto già poco appetibile condito dalla scelta di non disputare le Olimpiadi che ti procura quasi soltanto critiche – interne ed esterne al mondo del tennis.
A leggere certi commenti, in meno di due mesi Jannik Sinner sembrava passato da sicuro vincitore Slam (e in quanto tale salvatore della patria) a oggetto opaco, polveroso e già quasi sacrificabile del tennis italiano. ‘Gioca sempre uguale, non serve così bene, e poi non gliene frega nulla di competere con la maglia della nazionale‘ – dicevano un po’ tutti in giro, distratti e (giustamente) abbagliati dalla luce emessa da Matteo Berrettini che nel frattempo arrivava in finale a Wimbledon. Torneo al quale Sinner partecipava appena per quattro set, sconfitto subito da Fucsovics.
Come spesso accade, serviva solo un po’ di pazienza. Jannik Sinner non è guarito, anche perché forse non si era mai ammalato davvero, ma a Washington ha vinto due buone partite e ha discrete possibilità di arrivare in fondo. Che ci riesca o meno interessa il giusto, rileva di più il fatto che questo periodo di appannamento lo abbia accusato forse anche oltre i reali demeriti sul campo. Lo prova il fatto che Jannik – con il quale siamo in contatto via Zoom, nel corso del torneo – tende a tornare sempre sull’argomento anche quando la domanda non verte direttamente sulla questione, quasi a voler essere sicuro che questa volta la comunicazione non risulti fraintendibile nei modi e nei tempi come quella che ha riguardato la scelta di non giocare le Olimpiadi di Tokyo.
“Come ho già detto, non ci voglio pensare. Non so dirti se ho fatto la scelta giusta“, è stata la risposta di Jannik alla domanda sugli eventuali rimpianti per non aver preso parte alla spedizione olimpica. “Forse in una situazione del genere la scelta giusta non esiste [Jannik aveva già raccontato al Tennis Italiano che la verità sulla sua decisione la conoscono in pochi, ndr]. Ovviamente sono felice per qualsiasi italiano quando vince una medaglia, è sempre bello vedere atleti che raggiungono certi traguardi dopo anni di sacrifici. Sì, è vero che il tennis è alle Olimpiadi, ma i grandi tornei sono più frequenti“. Nell’enunciare un concetto piuttosto evidente, ossia che per alcuni sport le Olimpiadi rappresentano un’acme senza eguali mentre il tennis è strutturato diversamente, forse Jannik sta spiegando parzialmente la sua scelta. Ma come dice lui, non ha senso pigiare sul tema troppo a lungo.
“Molte persone dicono che è un periodo negativo; è vero, ho perso un paio di partite che potevo e forse dovevo vincere, ma ho sempre dato il massimo. Magari ho commesso degli errori, ma a livello mentale sono sempre lo stesso Sinner“, ha detto invece dopo la vittoria su Sebastian Korda, la voce virtuale resa più ovattata dalla mascherina che l’organizzazione gli impone di indossare davanti al microfono. “Anche le partite che ho perso, le ho perse 6-4, 7-5 o 7-6, insomma non ho mai preso una ‘stesa’ [per la verità un 6-0 è arrivato, ma era il terzo set dell’ottavo del Roland Garros con Nadal, e ovviamente perdere male con Rafa a Parigi non fa molto testo, ndr]. Io provo sempre a imparare dai miei errori, poi qualche volta funziona e qualche volta no, ma l’importante è dare il 100% di quello che ho. Servo bene, servo male, alla fine provo sempre a vincerla in qualche modo“. Poi, orgoglioso, si lascia sfuggire anche che “alcune partite che ho perso le potevo vincere“.
A Washington con lui non c’è Riccardo Piatti, e non ci sarà neanche a Toronto e Cincinnati. Arriverà in tempo per lo US Open. Con Jannik, in queste settimane, viaggia Andrea Volpini, a cui spetta l’onere di aggiornare telefonicamente Piatti su quanto accade dentro e fuori dal campo. “Dopo la partita, di solito Riccardo mi dice subito detto quello che avrei dovuto fare, o comunque quello che secondo lui avrei dovuto fare; ci confrontiamo, magari a volte io non sono d’accordo e parliamo, perché io voglio capire. Robe da allenatore-allievo, no? Riccardo e Andrea sono sempre in contatto, ovviamente quando Andrea si accorge di una cosa la facciamo [vuole intendere ‘in autonomia’, ndr], ma Riccardo sa praticamente tutto quello che faccio in una giornata“.
Il match con Steve Johnson, che potrebbe portarlo in semifinale, funziona anche da macchina del tempo. Riporta Jannik al maggio di due anni fa, quando era ancora poco più che un adolescente dai capelli rossi e arruffati alla sua prima esperienza al Foro Italico, proprio contro il tennista statunitense. “Sono cambiate tante cose da allora, tante… e allo stesso tempo poche, perché il mio approccio è sempre lo stesso. Proviamo a fare le cose semplici, ma questa semplicità comporta un lavoro duro e un processo molto lungo. Sono ancora giovane, ma vivo le partite in modo un po’ diverso. Il lavoro è importantissimo, in allenamento provi cose nuove, ma in partita devi cercare di vincere – sono due cose diverse“.
Sembra che la differenza stia nel fatto che due anni fa c’era solo da imparare, mentre oggi la vittoria è entrata a far parte degli obiettivi a tutti gli effetti. Tra i piccoli correttivi che Jannik sta provando ad applicare alla sua routine tennistica c’è anche quello di giocare più spesso il doppio. Ad Atlanta con Opelka è arrivato addirittura il titolo, qui a Washington sta facendo coppia con l’avversario appena sconfitto in singolare, Sebastian Korda. “Il doppio lo giochiamo perché è sicuramente meglio fare una partita in più e poi perché è meglio servire sul 40-40, con il punto secco che ti mette pressione, rispetto a un servizio in allenamento. Lo stesso vale per la risposta. Poi qualche volta fai delle volée, insomma mi può aiutare abbastanza“. Appuntamento alle 21:30 italiane (circa) per la sfida di quarti di finale.