Il sipario si alza e sulla scena compaiono i primi protagonisti della nostra storia: golosi e scialacquatori.
Il GOLOSO: PAOLO BERTOLUCCI
Cognome da poeta (o regista se preferite), braccio d’oro e fisico…di merda. Non è un refuso e neppure una nostra mancanza di rispetto nei confronti di Paolo Bertolucci. È lui in persona a dare del suo fisico questa ingenerosa definizione nel sul libro autobiografico “Pasta Kid. Il mio tennis la mia vita”, per poi però aggiungere poche pagine dopo il giudizio che Stan Smith diede di lui: “Un grandissimo talento e un formidabile artista”.
Il soprannome che dà il titolo al suo libro glielo diede a inizio carriera la guida del Direttore nell’Oltretennis, ovvero Bud Collins.
L’avventura tennistica di Bertolucci partì dalla natìa Forte dei Marmi, più precisamente da un circolo tennistico in cui suo padre lavorava in qualità di maestro. Un giorno d’estate del 1962 Giorgio Neri – un importante dirigente della Virtus Bologna che negli anni ’50 era stato capitano della nazionale di Davis – entrò in quel circolo e fu folgorato dall’estro di Bertolucci; convinse mamma e papà Bertolucci a lasciar partire il figlio per Bologna per allenarsi a tempo pieno e da quel giorno la vicenda sportiva del nostro eroe ebbe inizio.
Non ci si lasci ingannare dall’autoironia di Bertolucci, che ancora oggi rifulge nelle sue cronache televisive soprattutto quando Elena Pero gli si rivolge quasi fosse l’oracolo di Delfi: sin da bambino fu un atleta serio e interamente dedito alla sua professione. È vero che con un sombrero e un paio di stivali avrebbe potuto interpretare la parte di Cico al cinema, ma è altrettanto vero che le sue qualità tecniche – mirabilmente rappresentate dal rovescio che gli valsero il secondo soprannome “bracciodoro” – unite a una straordinaria mobilità e velocità di piedi gli permisero di interpretare molto bene quella del giocatore di tennis in un’epoca in cui la tecnica aveva ancora la meglio sulla forza fisica. Bertolucci raggiunse la posizione numero 12 del mondo nel 1973, l’anno in cui arrivò ai quarti di finale a Parigi, mentre nel 1977 vinse il torneo di Amburgo – un Master 1000 ante litteram – battendo in finale Manuel Orantes. Nel 1977 trionfò anche a Berlino e Firenze: è l’unico italiano ad avere conquistato tre tornei sulla terra rossa nel medesimo anno.
Fu un ottimo doppista, specialità nella quale in coppia con Adriano Panatta diede un contributo fondamentale nella conquista della Coppa Davis nel 1976.
Il tribunale dell’Oltretennis presieduto da Stefanello Edberg lo ha condannato a una pena severa ma giusta: “La sua dieta sarà composta dal companatico caro a San Giovanni Battista, ovvero locuste e miele selvatico. Purtuttavia, in considerazione dei meriti acquisiti in campo, ogni 52.328 anni gli sarà concessa una pizza, specialità alla diavola”.
SCHEDA DEL GIOCATORE | |
Nome | Paolo Bertolucci |
Nato il | 03/08/1951 |
Nazionalità | Italiana |
Titoli vinti | 6 |
Titoli Slam | – |
Coppe Davis | 1 |
Miglior Classifica | 12 |
LO SCIALACQUATORE: ADRIANO PANATTA
Se avessimo seguito fedelmente lo sviluppo della trama della Divina Commedia, dopo un goloso avremmo dovuto descrivere un iracondo. Il cuore ha però avuto il sopravvento sulla ragione, e quindi dopo Bertolucci ecco Panatta, due uomini i cui destini avrebbero ben figurato nelle “Vite parallele” di Plutarco se solo fossero nati duemila anni prima.
Quasi coetanei (1950 Panatta e 1951 Bertolucci); entrambi cresciuti su un campo da tennis (Panatta era figlio del custode del tennis club Parioli); dotati di un grande talento naturale; agonisticamente cresciuti insieme nel centro tecnico di Formia; artefici della coppia tennistica forse non più forte ma sicuramente più celebre del tennis italiano.
Divisi dal rovescio: sublime quello di Bertolucci; così così quello di Panatta.
Ma mentre fisicamente Bertolucci fu Cico, Panatta fu Zagor, e questa naturale prestanza fisica gli consentì di raggiungere risultati più importanti di quelli che ottenne il suo gemello diverso; risultati che fanno di lui sino ad oggi il più forte tennista italiano dell’Era Open.
Panatta fu un giocatore pressoché irripetibile per i canoni del tennis moderno: un attaccante specialista della terra rossa; tra il 1971 e il 1980 disputò 26 finali, 23 delle quali su terra rossa. Ne vinse 10. Vinse un solo torneo lontano dall’amata terra, a Soccolma sul cemento indoor. Fu l’unico giocatore che riuscì a sconfiggere Borg a Parigi: nel 1973 e nel 1976.
Sulle superfici veloci non ebbe mai molta fortuna; nella nostra memoria – e probabilmente anche nella sua – resta indelebile il ricordo di due dolorose sconfitte: contro Pat Dupré nei quarti di finale dell’edizione di Wimbledon del 1979 e contro Jimmy Connors allo US Open 1978, la prima edizione disputatasi sul cemento.
Per onestà bisogna però dire che le sue vittorie più belle e importanti, ovvero Roma e Parigi ’76, giunsero dopo infinite tribolazioni al primo turno di entrambi i tornei: a Roma dovette annullare 11 match point a Kim Warwick e poi uno che però ne vale 11 a Pavel Hutka a Parigi con una volèe di diritto in tuffo degna del miglior Becker.
A questi trionfi individuali, nel dicembre 1976 ne seguì uno di squadra: la coppa Davis a Santiago del Cile. Dal 1973 il Cile era soggetto alla dittatura di Augusto Pinochet, e le tribolate vicende che portarono la federazione italiana ad accettare di recarsi a disputare la finale in quel Paese meritano un racconto che esula da questo contesto. A chi desidera saperne di più consigliamo di leggere il libro di Dario Cresto-Dina “Sei chiodi storti”, il cui titolo si riferisce ai chiodi che Panatta portava sempre con sé per scaramanzia.
Furono Panatta e Bertolucci nel doppio a conquistare il punto che regalò all’Italia la prima e sino ad ora unica insalatiera; le immagini televisive erano in bianco e nero e quindi nessuno – ad eccezione di chi era lì presente – poté accorgersi che i due italiani giocarono indossando una maglietta rossa; un’idea di Panatta e uno schiaffo in faccia al regime di Pinochet.
Giunti a questo punto molti lettori – soprattutto tra i più giovani – si staranno probabilmente chiedendo quale sia la ragione per la quale abbiamo collocato tra gli scialacquatori un giocatore con un curriculum sportivo così ricco. Forse siamo stati un po’ severi con lui, ma è l’ammirazione e l’amore che ci hanno spinti a farlo. Crediamo che sarebbe stato un giocatore ancora più grande se si fosse allenato di più e divertito meno. Ma ancora non abbiamo finito di scriverlo che già siamo giunti ad una conclusione: ha fatto bene.
Il Tribunale Supremo dell’Oltretennis non è però d’accordo con noi e lo ha quindi condannato alla seguente pena: “Si allenerà in eterno otto ore al dì con Guillermo Vilas in un campetto di terra rossa del deserto della Giordania davanti a una folla di diavoli che grideranno incessantemente in coro: Adrianooo-Adrianooo-Adrianooo”.
SCHEDA DEL GIOCATORE | |
Nome | Adriano Panatta |
Nato il | 09/07/1950 |
Nazionalità | Italiana |
Titoli vinti | 10 |
Titoli Slam | 1 (RG) |
Coppe Davis | 1 |
Miglior Classifica | 4 |
IL GOLOSO DANTESCO : CIACCO (a cura di Gianmarco Gessi)
«Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:
per la dannosa colpa de la gola,
come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.»
(Inferno VI, vv 52-54)
A Ciacco calza a pennello la celebre espressione manzoniana “Carneade! Chi era costui?”, seppure con una differenza sostanziale: Carneade fu un filosofo del quale sappiamo molte cose, mentre di Ciacco come personaggio storico non sappiamo nulla.
Dante lo colloca tra i golosi nel sesto canto dell’Inferno. È Ciacco stesso a prendere la parola e a presentarsi così a Dante e Virgilio: “voi cittadini mi chiamaste Ciacco: per la dannosa colpa de la gola, come tu vedi, a la pioggia mi fiacco”.
All’epoca di Dante “Ciacco” era al tempo stesso un sostantivo che indicava il maiale e un diminutivo dei nomi propri Jacopo o Giacomo.
Boccaccio ne fa il protagonista della novella ottava della nona giornata del Decamerone descrivendolo come “uomo ghiottissimo”.
Se davvero esistette un Ciacco storico, è probabile che fu un contemporaneo di Dante di qualche anno di lui più anziano.
All’inconsistenza storica di Ciacco fa da contraltare quella letteraria; nella Commedia Dante gli riserva infatti un ruolo importante perché a lui il Poeta fa pronunciare la prima profezia sulle future, tragiche vicende politiche di Firenze.
La pena inflittagli è un perfetto esempio di legge del contrappasso: così come in vita si comportarono come bestie, da morti giacciono accovacciati in terra come animali immersi in una broda e flagellati dalle intemperie.
LO SCIALACQUATORE DANTESCO: LANO DA SIENA (a cura di Gianmarco Gessi)
«Quel dinanzi: “Or accorri, accorri, morte!”.
E l’altro, cui pareva tardar troppo,
gridava: “Lano, sì non furo accorte
le gambe tue a le giostre dal Toppo!”.»
(Inferno XIII, vv. 118-121)
È Lano da Siena colui che – seppure già morto – invoca la morte nella selva dei suicidi e degli scialacquatori descritta da Dante nel XIII Canto.
In vita egli fu probabilmente il senese Arcolano da Squarcia, o Ercolano Macone, personaggio in vista nella città e noto scialacquatore.
Secondo le cronache dell’epoca Lano apparteneva alla cosiddetta “brigata spendereccia”, un gruppo di giovani senesi ricchi e dissoluti che dedicarono tutte le loro sostanze ai divertimenti.
Dante riconduce la sua morte alla battaglia delle giostre del Toppo del 26 giugno 1288, nel corso della quale i senesi furono sconfitti dagli aretini.
Secondo Boccaccio, Lano da Siena in quella circostanza cercò la morte volontariamente in quanto ridotto in miseria, ma a tale proposito non esiste alcuna certezza.
È però certo che in quella circostanza – a differenza che nell’Inferno Dantesco – le sue gambe non furono sufficientemente rapide e non poté quindi scampare alla morte, come gli ricorda ironicamente il compagno di pena, Giacomo da Sant’Andrea, nei versi sopra citati.
È condannato a correre nudo con i suoi compagni di sventura tra le selve inseguiti da cagne nere che – una volta raggiuntili – li fanno a pezzi.