Dopo il cataclisma comunicativo dell’Australian Open, Novak Djokovic ha deciso di rompere il periodo di silenzio che si è autoimposto con una sobria intervista rilasciata a una delle testate più prestigiose del mondo, la britannica BBC. E lo ha fatto per rilasciare altre dichiarazioni sul suo stato vaccinale, oltre a quelle rese pubbliche dai procedimenti legali “down under”, invertendo la tendenza che aveva iniziato nel 2021 trincerandosi verso il suo più che legittimo diritto alla riservatezza.
Il contrasto con il marasma mediatico australiano, gestito principalmente con comunicazioni scritte attraverso i propri canali social media, non poteva essere più stridente: risposte chiare, sintetiche, diritte al punto, niente giri di parole o risposte sibilline. “Non avevo detto nulla perché avevo il diritto di tenere queste questioni private, ma vengono riportate ipotesi incorrette che conducono a conclusioni sbagliate, quindi credo ci sia la necessità da parte mia di parlare”.
L’intervista è stata condotta dal BBC Media Editor Amol Rajan nel Novak Tennis Center di Belgrado, ed è stata trasmessa integralmente sulla televisione britannica la sera del 15 febbraio. Djokovic ha dichiarato di non aver parlato prima di questa occasione “per rispetto verso i suoi colleghi impegnati nell’Australian Open e per rispetto verso il procedimento legale in corso in Australia, oltre alla volontà di prendersi un po’ di tempo per riflettere e non farsi trasportare dalle emozioni“.
Nel corso dei 30 minuti trasmessi in video (e disponibili in formato audio sulla piattaforma di BBC Sounds), il campione serbo ha più volte detto che capisce le reazioni contro di lui da parte del pubblico australiano e la frustrazione che hanno provato nel corso degli eventi che l’hanno interessato, ma che lui ha sempre rispettato le regole e mai una volta ha utilizzato la sua posizione privilegiata per ottenere un trattamento di favore.
Ha confermato di aver appreso della possibilità di ottenere un’esenzione dalla necessità di essere vaccinato per entrare in Australia durante la seconda settimana di dicembre, e a chi avanza sospetti sull’incredibile coincidenza che lo ha visto ammalarsi di COVID solo dieci giorni dopo, in tempo per poter chiedere l’esenzione per il viaggio in Australia ha risposto: “Ho sempre considerato il COVID con la massima serietà, ho sempre seguito le norme, sono stato testato centinaia di volte per poter viaggiare e per poter fare il mio lavoro. Nessuno può dirsi fortunato di aver preso il COVID. Non mi piace che qualcuno possa pensare che ho sfruttato la situazione e la mia posizione per ottenere un test positivo per poter andare in Australia. Ho avuto il COVID due volte: l’ultima volta è stata asintomatica, mentre la prima volta un anno e mezzo fa ho avuto dei sintomi, è non è stato per nulla bello“.
PER ORA NO – Djokovic riconosce che la campagna vaccinale costituisce di gran lunga lo sforzo maggiore messo in atto dalla popolazione mondiale per combattere e possibilmente sconfiggere il virus, ma continua a sostenere la libertà di ogni individuo di decidere cosa viene immesso nel proprio corpo. E in qualità di atleta professionista si riserva il diritto di valutare ogni sostanza che viene ingerita o in altro modo assimilata dal proprio corpo e stabilire ciò che è meglio per lui da questo punto di vista.
Questa, dunque, la posizione di Djokovic sui vaccini anti COVID-19 attualmente in commercio. Ma non si tratta di una posizione di principio contro tutti i vaccini: si tratta di uno scetticismo orientato solo a ciò che è attualmente disponibile sul mercato, ovvero quei prodotti delle case farmaceutiche che tutti noi abbiamo ormai imparato a conoscere fin troppo bene. E fino a che non sarà disponibile un vaccino contro il COVID-19 che soddisfi i suoi personali criteri di accettabilità, Djokovic ha deciso di essere pronto a rinunciare a giocare tutti i tornei che richiederanno la vaccinazione per la partecipazione degli atleti.
Ha comunque rifiutato l’etichetta di “Anti-Vax”, sostenendo di non identificarsi con quel movimento, e che nel corso dell’intero procedimento legale in Australia non gli è mai stata chiesta quale fosse la sua posizione, mai una volta, nonostante la sua deportazione sia stata attuata basandosi sulle sue posizioni scettiche contro i vaccini. Tuttavia la sua deposizione era prevista nel secondo procedimento legale, ma non si è poi svolta, presumibilmente per scelta del suo team legale.
FINO ALLA FINE – La posizione è limpida, senza compromessi, e potrebbe costare carissima a Djokovic sia dal punto di vista agonistico, con perdita di punti e posizioni in classifica, oltre alla mancata possibilità di vincere altri importanti tornei, ma anche dal punto di vista economico. Certo, si potrà dire che Novak Djokovic, con un prize money in carriera di oltre 150 milioni di dollari e altre svariate centinaia di milioni in sponsorizzazioni, premi presenza, esibizioni e quant’altro, probabilmente non ha bisogno di altro denaro per vivere in maniera agiata fino alla fine dei suoi giorni (e così pure i suoi immediati discendenti). Ma non è mai semplice rinunciare a milioni di dollari che si potrebbero guadagnare onestamente.
Però si tratta soprattutto di una presa di posizione di grande coerenza, di una persona talmente convinta dei propri principi o della propria conoscenza, da scegliere una strada fortemente anticonvenzionale che sicuramente renderà la sua vita molto più complicata.
È indubbio che a Djokovic in questa circostanza vada riconosciuto soprattutto questo: una grande coerenza, che poi alcuni potrebbero anche interpretare come cocciutaggine e intransigenza nel non voler considerare opzioni alternative migliori, ma che è certamente figlia di un fortissimo carattere. D’altronde, senza quel carattere non sarebbe riuscito a migliorare il suo tennis e il suo fisico fino a costruire la macchina da tennis che tutti conosciamo, ma non è insolito che l’incrollabile determinazione dei supercampioni dello sport, la stessa determinazione che li porta a primeggiare, diventi un’arma a doppio taglio.
Perché è altrettanto legittimo chiedersi quali siano le conoscenze di Djokovic in termini di immunologia da fargli rifiutare i vaccini studiati, preparati e testati dai migliori scienziati del mondo. Se un dottore in microbiologia in camice bianco si recasse sul campo da tennis sul quale si sta allenando Djokovic e dicesse: “In base alle mie ricerche e alle nozioni che ho appreso, il tuo movimento del servizio è sbagliato e dovresti cambiarlo”, credo non sarebbe difficile immaginare la risposta di Djokovic e del suo staff.
Ma anche se è abbastanza semplice supporre che Djokovic non abbia la competenza per effettuare valutazioni informate sulla durata dei test sui vaccini oppure sui loro effetti collaterali, il nocciolo della questione non è quello. Il vero punto focale è quello delle regole da rispettare per la vita in società.
DURA LEX – Siamo quasi in otto miliardi su questo pianeta, e ognuno di noi interagisce in maniera più o meno frequente con un gruppo più o meno ristretto di questi otto miliardi. Al fine di preservare ordine e sicurezza in queste interazioni è necessario dotarsi di regole comuni da rispettare.
Nel caso del tennis professionistico maschile, la situazione è abbastanza complessa perché esiste un numero di entità che si occupano di far funzionare il circo itinerante, e queste associazioni, oltre a fissare le loro regole, devono rispettare quelle imposte dai singoli tornei, dalle autorità locali e da quelle nazionali dei territori in cui si va a giocare.
L’ATP, nello specifico, ha deciso di non imporre l’obbligo vaccinale a tutti i propri associati (come sarebbe stato sua prerogativa fare), ma le condizioni da soddisfare per i non vaccinati sono estremamente più restrittive di quelle per i vaccinati: sostanzialmente chi non è inoculato con il vaccino deve vivere in una bolla come nei giorni della pandemia, e deve essere testato ogni giorno a spese sue. E le sue regole sono comunque subordinate ad almeno altri tre livelli di normative:
- Dal momento che la maggior parte dei tennisti che partecipano ad un torneo nella maggior parte dei casi non sono cittadini del Paese nel quale si disputa il torneo, per arrivare al luogo di gara i membri dell’ATP devono rispettare le regole d’immigrazione del Paese in questione (a meno di non essere già cittadini o residenti di detto Paese), e alcuni di questi Paesi impongono la vaccinazione come condizione per l’ingresso di un cittadino straniero;
- Le autorità sanitarie nazionali e locali che hanno giurisdizione sul territorio nel quale si disputa un torneo possono imporre il vaccino per chi gioca a tennis, per chi disputa gare professionistiche, per chi si trova in impianti pubblici con più di x persone, etc…
- Infine i tornei, o gli impianti nei quali si disputano, sono entità private, che possono imporre regole ancora più restrittive di quelle imposte dalle autorità nazionali o locali, e quindi possono decidere di richiedere la vaccinazione se vogliono. Per esempio: indipendentemente da quelle che siano le norme per l’ingresso degli stranieri in Inghilterra o le disposizioni della NHS, l’All England Club potrebbe svegliarsi domattina e dire “per giocare qui bisogna essere vaccinati”.
Ma perché il vaccino viene visto come la chiave magica per accedere al meraviglioso mondo pre-2020? Principalmente perché funziona, perché è accessibile a tutti (almeno ai giocatori e nei Paesi sviluppati) e la sua assunzione è una scelta del giocatore (ammalarsi senza conseguenze invece non lo è). La soluzione è facile ed equa (quasi per tutti).
La standardizzazione delle norme fa parte del sistema operativo di una società civile: se si consentisse a ognuno di argomentare la propria situazione sarebbe paralisi, caos, anarchia. È verosimile pensare che mi possa essere consentito di imboccare contromano il senso unico sotto casa, che solo un assessore alla viabilità cieco può aver messo per quanto è assurdo, in modo da risparmiare 10 minuti al giorno e tre semafori, solo perché nel mio caso non ha senso? Oppure che mi si possa lasciar attraversare l’incrocio con il semaforo rosso perché sono le 3 del mattino e “non c’è nessuno”?
Le libertà individuali sono sacrosante, fino a che non vanno a inficiare le libertà del prossimo. E passare all’incrocio con il semaforo rosso va a urtare la libertà (e forse anche la carrozzeria) del prossimo, così come vivere a stretto contatto con le altre persone senza adeguata protezione contro un virus altamente infettivo e potenzialmente mortale.
LA BATTAGLIA È SOLO ALL’INIZIO – Questa standardizzazione è ciò che Djokovic ha ritenuto opportuno dover sfidare, con grande costo per la sua persona, ma si tratta di una posizione molto più sfumata di quanto non possa sembrare. Laddove le imposizioni vaccinali esistono, ci sono anche più o meno circostanziate possibilità di eccezioni, come tutti noi abbiamo imparato bene durante l’australiana vicenda. Il fatto che Djokovic abbia sostenuto di essere pronto a rinunciare a tornei piuttosto che compromettere la sua posizione sugli attuali vaccini non vuol dire che non farà di tutto per poter partecipare comunque ai tornei in programma senza vaccinarsi sfruttando le vie concesse dalle varie normative. Esistono infatti controindicazioni mediche all’assunzione di vaccini, chiaramente in casi molto più circoscritti di quanto i cosiddetti “No Vax” vorrebbero, ma che lasciano aperti spiragli per gli individui più motivati (e tipicamente assistiti da avvocati strapagati).
Di conseguenza chi abbia interpretato questa pubblica dichiarazione di Djokovic come l’inizio di un’era di chiarezza sui suoi gioca/non gioca, ha probabilmente peccato di un eccesso di ottimismo. Ci saranno sicuramente tentativi di infilarsi nella zona grigia, ma almeno speriamo ci venga risparmiato il circo che abbiamo visto a Melbourne: non ce lo meritiamo. E non se lo merita neanche Djokovic.