È arrivata la decisione nel caso di Varvara Lepchenko, dallo scorso agosto sospesa per violazione del Programma Anti-Doping nel Tennis (TADP) dopo essere risultata positiva al metabolita di adrafinil e/o modafinil al controllo effettuato all’Hungarian Grand Prix di luglio. Il Tribunale Indipendente ha imposto alla statunitense nata a Tashkent quattro anni di squalifica.
Adrafinil e modafinil sono stimolanti commercializzati e assunti per aumentare vigilanza, attenzione e insonnia (trattamento della narcolessia), “sostanze non specificate” incluse nella Lista proibita della WADA il cui uso è perciò vietato durante la competizione. Lepchenko ha ammesso la violazione del Programma, diretta conseguenza della responsabilità della giocatrice per tutto ciò che assume e del non aver contestato l’esito delle analisi.
Bisogna ricordare che, sebbene questa sia la seconda violazione del Programma da parte di Varvara, è considerata la prima perché in quella del 2016 – l’altro caso Meldonium – non c’erano state nel colpa né negligenza (piccola quantità appena pochi giorni dopo l’inclusione nella Lista della ormai famigerata sostanza). Secondo il TADP, incorrere per la prima volta in questo tipo di violazione comporta una squalifica di quattro anni, a meno che l’atleta non provi che la non intenzionalità dell’assunzione. “Intenzionale” significa che l’atleta sapeva che il suo comportamento costituiva una violazione o che esisteva un significativo rischio di violazione, ignorandolo manifestamente. A questo punto, toccava quindi a Lepchenko l’onere di confutare la presunzione di intenzionalità, facendo spostare a proprio favore l’equilibrio delle probabilità fornendo una versione appunto “più probabile che non”. Se vi fosse riuscita, la squalifica sarebbe stata ridotta a due anni. La difesa dell’ex top 20 si è basata, tra l’altro, sulla sessantina di test superati in carriera, sul citato caso-Meldonium a proprio favore e sulla mancanza di effetti sulla prestazione di una quantità come quella rinvenuta.
Il nodo cruciale è stato non saper dire con certezza come la sostanza fosse entrata nel suo organismo, questione che, ha asserito l’avvocato di Varvara citando dei precedenti, non costituirebbe un requisito essenziale per liberarsi dell’onere in capo sulla sua cliente, pur rendendone il compito più difficile. L’ITF non ha contestato l’affermazione, ma, ricorrendo a un’altra sentenza, ha rilevato come spettasse all’atleta spiegare quale sia stato il comportamento – non intenzionale – che ha portato al test positivo. L’atleta avrebbe quindi almeno dovuto mostrare come la sostanza sia entrata nell’organismo, essendo questo il “comportamento” o parte cruciale di esso.
Riguardo invece alla giustificazione basata quantità della sostanza troppo modesta per avere effetti, fatto che ne proverebbe l’assunzione accidentale, è lo stesso Tribunale ad averla definirla “una congettura basata su una supposizione”.
In conclusione, il Tribunale non ha ritenuto che Lepchenko sia riuscita a liberarsi dell’onere della prova della non intenzionalità e, pertanto, che non ci fossero le basi per la riduzione della squalifica di quattro anni con decorrenza 19 agosto 2021. La tennista classe 1986 perde punti e montepremi ottenuti all’Hungarian Grand Prix e al successivo BNP Paribas Poland Open, ma non negli altri due tornei in seguito disputati in virtù del test negativo del 27 luglio. Avverso la decisione del Tribunale, Varvara potrà presentare appello al CAS di Losanna.