dal nostro inviato a Montecarlo
Qui al Country Club su quelle tribune affacciate sul mare in quella magnifica cornice davvero unica, ma così percosse dal vento che si stava meglio con piumini, sciarpe e cappellini (se non coperte) – non una gran promozione stavolta per la Costa Azzurra – hanno fatto quasi tutti un gran tifo per un giocatore che non si chiamava né Roger Federer, né Rafa Nadal. Bensì Alejandro Davidovich Fokina, n.46 del mondo potendo vantare quarti di finale sia a Montecarlo sia al Roland Garros, ma probabilmente semisconosciuto alla maggior parte degli spettatori.
Soltanto all’inizio, all’applausometro… il n.1 del mondo aveva soverchiato il rivale poco più spagnolo che russo, ma – come accennavo – non ancora un personaggio noto al grande pubblico dei non addetti ai lavori.
Non lo aiuta troppo nemmeno quel doppio cognome, a dir la verità, e d’ora in avanti sceglierei di chiamarlo Fokina, perché più breve.
Tuttavia con l’andare del match, il 4-1 e doppio break per Fokina, la gente ha scelto per chi tifare. E cioè per Fokina. Anche se Novak, nella conferenza stampa post-partita, ha sorvolato dicendo di non aver percepito questo. Vuoi perché era lui l’underdog, il tennista non favorito. Vuoi per la sindrome che prende i non abbonati che vorrebbero poter raccontare agli amici “Quel giorno in cui perse Djokovic da quel Fokina a Montecarlo c’ero anch’io”. Vuoi, last but not least, perché era proprio quel semisconosciuto Fokina a fare il match, a comandare sorprendentemente il gioco in quasi tutti gli scambi, a costringere il n.1 a far da tergicristalli e a remare spesso impotente sul fondocampo. Fatto sta che pian piano gli umori del pubblico si sono in gran parte spostati a simpatizzare per Fokina che sparava bordate impressionanti – pesantissime soprattutto quelle di dritto – e si rivelava anche un più che discreto showman con ripetute capriole e tuffi degni di Tania Cagnotto. Dico Tania e non suo papà Franco Giorgio per non prendere in contropiede i nostri più giovani lettori che probabilmente non hanno mai sentito nominare un tuffatore altoatesino che è stato olimpionico, Klaus Di Biasi, a suo tempo noto almeno quanto il suo conterraneo Jannik Sinner, e magari sarebbero in difficoltà se io citassi i tuffi di Boris Becker sui prati dell’All England Club nella seconda metà degli anni Ottanta. Dove, fra parentesi, trionfò soltanto tre volte (1985-1986-1989). E allora, mentre la gente continuava a incitare un Fokina quasi eroico, con la maglietta imbrattata di terra rossa, i calzini più arancioni della maglietta bruttina di Nole. Fokina è riuscito perfino ad arrossare, fra una caduta e l’altra – o se preferite chiamarli tuffi fate vobis – le nocche. Un miracolo che sia riuscito a tenere sempre la racchetta in pugno.
Eh sì, aveva ancora una volta tutti contro Novak Djokovic, proprio come ha scritto e titolato Simone Eterno in un libro recentemente edito da Sperling&Kupfer (“CONTRO. Vita e destino di Novak Djokovic”) in cui cinque capitoli si soffermano sui diversi contro. Contro il destino (le bombe sulla Serbia). Contro i più forti (Federer e Nadal). Contro se stesso (la scelta pro Guru e contro il coach di sempre Marian Vajda). Contro il record dei record (il Grande Slam, così vicino eppur fallito, così come i 21 Slam). Contro… corrente (l’ostinato rifiuto al vaccino).
Ecco, io non dubito che fra tutti questi… “contro”, quello che abbia influenzato di più sia l’atteggiamento del pubblico e sia la performance di Djokovic, sia stato l’ultimo.
A tutti coloro che, sua sponte o anche controvoglia, hanno deciso di vaccinarsi – ed è indiscutibile che siano stati di più di quelli che hanno preferito non farlo (e qui non sto discutendo il merito, il torto o la ragione) – chi non lo ha fatto non suscita grandi simpatie spontanee. E’ un fatto. Giusto o ingiusto che sia… è così.
Poi non c’è dubbio che il tennis ai massimi livelli non è uno sport in cui si possa improvvisare. Se uno gioca tre partite l’anno non può pensare di poter esprimere il meglio delle sue capacità alla quarta partita. Soltanto Kyrgios, nella sua straordinaria follia, poteva raccontarci che ciò per lui sarebbe stato possibile. Adesso, anche Nick si è convinto di aver detto una gran sciocchezza.
Su l’Equipe, ripreso da Slalom (alla cui quotidiana newsletter consiglio tutti di abbonarsi se amate il tennis, ma anche tutti gli sport con tante storie straordinarie pesate e “montate” da Angelo Carotenuto) ho letto quel che ha detto Paul Quetin, preparatore atletico della federazione francese.
“Niente sostituisce la competizione, niente sostituisce la catena di partite. Non è mai possibile riprodurre l’intensità dell’allenamento, in particolare l’intensità emotiva, che è costosa in termini di energia. Possiamo giocare molte partite di allenamento, molte sequenze di punti, l’allenamento può essere fisicamente più difficile della competizione, ma non è un sostituto del clima del torneo”.
E Djokovic ha fatto le sue scelte. Che hanno comportato la sua impossibilità a giocare in Australia e negli Stati Uniti. Ha trovato un avversario tosto, che ha dovuto vincere tre volte la sua partita perché è riuscito a perdere il secondo set pur essendo stato in vantaggio due volte di un break, 3-0 e 4-2, poi anche 4-2 nel tiebreak, quando qualcosa ha regalato lui ma è stato anche bravissimo un orgoglioso Djokovic a non arrendersi. Fokina aveva le sue brave colpe: come quando ha perso 12 punti su 13 in un certo frangente del secondo set o quando si è permesso, sul 4 pari del secondo set, di fare 3 doppi falli di fila.
Ma con il suo aiuto Nole aveva portato a casa il secondo set. E lì il n.1 del mondo, che nel frattempo aveva riconquistato il pubblico ben contento di assistere ad un terzo set, ha scontato la desuetudine agonistica ben descritta da Paul Quetin e ha finito la benzina. Lui che in tempi normali era stato capace di battere Nadal in finale all’Australian Open 7-5 al quinto dopo 5 ore e 53 minuti, lui che nella memorabile finale di Wimbledon 2019 finì per vincere al tiebreak del quinto set, 13-12 – l’ultimo sul 12 pari della storia Brit – un’altra indimenticabile battaglia intorno alle 5 ore.
45 minuti il primo set, 1h e 23 m il secondo, 48 minuti a senso quasi unico per il 6-1 del terzo set. La spia della benzina in rosso acceso.
Non è una sorpresa per me, non credo che sia stata una sorpresa neppure per lui. Anche se penso che se fosse uscito “vivo” da questo match, avrebbe probabilmente battuto il prossimo avversario, essendo entrambi Goffin o Evans, due giocatori dal tennis leggero. Certo non possenti come Fokina.
Pazienza, in un torneo già privo di alcuni top-ten ce ne siamo persi un altro che poteva arricchire il proprio palmares non trascendentale limitatamente a quanto raccolto qui nel club dove si allena da tanti anni con discreta frequenza. Nole ha vinto nel 2013 e nel 2015, due volte sole, mica nove come a Melbourne. E dal 2015 in poi il miglior risultato è stato un quarto di finale. Eppoi non dimentichiamo neppure che il match più recente di Nole si era concluso con una sconfitta con il “qualificato” Vesely, n.123 del mondo (che dopo quell’exploit quasi non si fermava più…).
Ok, Nole è il campione in carica del Roland Garros, le sue qualità quando è allenato e in forma non si possono davvero discutere, ma qui a due passi dal mare dove la palla va spinta di più perché la terra rossa è più lenta che a Parigi, lui un po’ di fatica l’ha spesso accusata. Per una volta oggi non parlo dei tennisti italiani, lo hanno già fatto benissimo gli altri nostri inviati qui a Montecarlo, Laura Guidobaldi (qui la cronaca di Musetti-Paire) e Gianluca Sartori (qui la cronaca di Sonego-Ivashka), con l’aiuto del resto della nostra redazione. Ma sono contento che almeno i due che pensavo che vincessero abbiano vinto, non mi illudevo sul fatto che Fognini potesse battere Tsitsipas, e mi aspetto un gran mercoledì… da leoni.