Traduzione dell’articolo di Tumaini Carayol, pubblicato sul The Guardian il 22 marzo 2022
Siamo a Melbourne, è da poco iniziata la stagione tennistica e in una conferenza stampa post-partita a Simona Halep viene chiesto come valuta le sue scelte in materia di allenatori. “Sono stata fortunata: ho trovato la persona giusta praticamente ogni volta”, risponde, facendo spallucce. “Non posso dire che sia stato difficile, ecco. Ho seguito il mio istinto, ho fatto quel che mi sentivo di fare. Credo di aver sempre preso le decisioni più giuste per la mia carriera”. Tra tutti i tennisti intervistati in quell’occasione, era stata proprio Halep a rispondere con maggiore sicurezza alle domande sul tema del coach – eppure, poche settimane dopo, la sua squadra si è sfaldata. A febbraio, a cinque mesi dalla separazione a sorpresa con il suo coach Darren Cahill, Halep ha annunciato la fine della collaborazione anche con i Rumeni Daniel Dobre e Adrian Marcu. Ha poi dichiarato che avrebbe giocato senza coach, per questioni di crescita personale e per capire “dove sarebbe riuscita ad arrivare, da sola”. Parrebbe non essere arrivata molto lontano.
Infatti, successivamente a Indian Wells, Halep aveva già effettuato una brusca inversione a U, assumendo dei nuovi volti nel suo team. Ha dichiarato di essersi resa conto in solo due tornei di quanto fosse difficile allenarsi, viaggiare e giocare i match, senza un coach. Così scopriamo che perfino un’atleta di successo di 30 anni, con 16 anni di esperienza alle spalle, si trova ancora a dover imparare, giorno dopo giorno. Negli sport “maggiori”, soprattutto in quelli di squadra, i coach hanno molto potere e controllo sulla carriera dell’atleta, mentre spesso, in quelli individuali, le sorti dell’atleta sono influenzate dalle federazioni nazionali. E poi c’è il tennis, dove l’atleta è al contempo datore di lavoro e oggetto del business stesso: assume delle persone nel suo team, ma poi va in campo da solo per la performance. “Quando ne ho parlato con atleti di altri sport, rimanevano scioccati”, racconta con una risata Daria Kasatkina, ex top 10 della WTA. “Mi dicevano tipo: ‘Wow, ma come fate a fare una cosa del genere?’”.
Avere così tanta autonomia nella propria carriera porta anche una serie di difficoltà. Come la strana dinamica di potere che si crea quando il tennista assume delle persone, spesso molto più anziane, che gli dicono cosa fare e che lo criticano. “Devi trovare i mezzi per mantenere il tuo team e crearti la tua piccola azienda”, spiega la ex numero 1 Garbiñe Muguruza. “Ho trovato estremamente difficile assumere delle persone il cui lavoro fosse dirmi cosa dovevo fare, essere umile e dire a me stessa: ‘Se mi cerco il team migliore, il miglior coach, poi devo essere disposta ad ascoltare quel che mi dicono.’ Anche se la nave è la mia, devo trovare un capitano che la diriga”. L’entourage di persone di cui un tennista si circonda è sempre più grande. Ora i tennisti viaggiano con diversi coach, fisioterapisti, fitness coach, agenti e perfino psicologi. Milos Raonic una volta si è definito il “CEO di Milos Raonic tennis”, poco dopo aver aggiunto un terzo coach al suo team.
“Credo che in fondo sarebbe più semplice se avessi qualcuno che mi dica in che tornei devo giocare, dove devo essere, così non devo pensarci io”, spiega Raonic. “Sono sempre qui a chiedermi come dovrei organizzarmi per giocare al meglio, settimana dopo settimana”. Verso la fine dello scorso anno le decisioni sulla scelta del coach erano diventate un tema scottante anche per Emma Raducanu, che aveva deciso di non prolungare la sua collaborazione con Andrew Richardson, il coach a interim scelto da Emma per la sua spettacolare corsa al titolo degli US Open. Questa decisione le costò parecchie critiche, finché non scelse di assumere definitivamente Torben Beltz. Gli anni da adolescente possono essere davvero brutali per certi atleti. I tennisti passano la gioventù a preparare il proprio gioco e il proprio corpo, eppure molti sentono di essere lasciati soli nella gestione delle enormi responsabilità legate all’avanzare della loro carriera.
Nonostante tutti i successi raggiunti, Andy Murray ha trovato spiacevole la sua esperienza di datore di lavoro: “Personalmente, non mi piace”, racconta. “L’ho trovato difficile. E’ complicato quando hai 18, 19, 20 anni e non hai l’esperienza per gestire queste situazioni”. Secondo Roger Federer, il fatto di elargire degli stipendi in giovane età è già di per sé bizzarro. “E’ un po’ imbarazzate all’inizio”, mi ha confessato nel 2018. “Essere un ragazzo giovane, che paga gli stipendi, non è molto usuale. Infatti, ho apprezzato il periodo in cui avevo il supporto della federazione e non dovevo curarmi di questi aspetti”. Murray è dell’idea che gli atleti dovrebbero ricevere del supporto all’inizio del loro percorso per prendere quelle decisioni che potrebbero incidere sulla loro carriera. “E’ un po’ strano a 19 anni dare lavoro a persone che hanno 20/25 anni più di te e che hanno molta più esperienza di te”, spiega. “Le cose non dovrebbero andare così. Dovrebbe essere l’opposto o quantomeno dovrebbe esserci una figura – un performance manager, o qualcosa di simile – che condivida il peso delle scelte con l’atleta”.
Con queste strane dinamiche si creano relazioni atleta-coach che sono difficili da mantenere. “Forse ora che stai pagando il suo stipendio potresti pensare: ‘Non mi piace, devo liberarmi di lui”, spiega Federer. “Ma è davvero sbagliato ragionare in questo modo e fortunatamente non ho mai ragionato così, né mi sono sentito in questo modo. Ho sempre pensato semplicemente che, beh, i coach sono più grandi, hanno più esperienza, sanno di cosa stanno parlando”. Naomi Osaka è dello stesso parere di Federer: “Credo che sia fondamentale comunicare regolarmente, bisogna assicurarsi di essere sempre allineati su uno stesso percorso, di condividere i medesimi obiettivi”.
E’ fin troppo facile per il tennista dare la colpa agli altri, esercitare il proprio potere e prendere decisioni emotive quando le cose non vanno al meglio: serve pazienza. “Bisogna essere molto pazienti”, dice Kasatkina. “Ma è tosta, perché giochiamo torneo dopo torneo, punto su punto… A volte riesci a difenderti, a volte perdi un po’ di terreno. È tutto così veloce e tu stessa vuoi ottenere risultati il più velocemente possibile”. Nell’ultimo anno, anche Murray è salito sulla giostra del coaching, separandosi dal suo storico coach Jamie Delgado per fare diversi periodi di prova con altri coach, fino a ri-assumere Ivan Lendl, con cui si è ritrovato questa settimana a Miami. Murray si racconta: “Negli anni ho fatto molta fatica a esprimere come mi sentivo rispetto a certe situazioni, mi preoccupavo della reazione delle persone con cui lavoravo, di come l’avrebbero presa e come mi avrebbero risposto”.
Una cattiva comunicazione non può che portare al peggiore dei risultati: il licenziamento. In alcuni casi le separazioni filano lisce, senza intoppi, come dimostra Félix Auger-Aliassime, che descrive la separazione dal suo coach Guillaume Marx nel 2020 come “probabilmente una delle decisioni più difficili della sua giovane età”, ma che da allora è cresciuto arrivando nei top 10. Un classico esempio di separazione tragica è invece quella avvenuta agli US Open del 2019 quando un’allora ventunenne Aryna Sabalenka, dopo aver perso nel torneo di singolare, annunciò la fine del rapporto con il coach Dmitry Tursunov. Pochi giorni dopo, scrisse una lettera dai toni drammatici su Instagram, pregandolo di tornare da lei. Lui quella settimana le rimase a fianco mentre lei alzava il trofeo di doppio femminile agli US Open. Ma il loro rapporto terminò definitivamente pochi mesi più tardi.
“Anche io ho avuto delle brutte esperienze agli inizi della mia carriera, quando ho terminato il rapporto con alcuni coach”, dice Murray. “Cercavo di parlare con i coach, ma l’esito non era quello che speravo. Esperienze negative e scomode come queste, a 18 o 19 anni, possono influenzare il modo in cui affronterai situazioni simili più avanti nella tua carriera”. Il tema della rottura con i coach provoca una risata in Kasatkina: “E’ un po’ come separarsi dal fidanzato o dalla fidanzata. E’ dura. A volte non se lo aspettano, o non te lo aspetti tu. Spesso sono gli atleti a interrompere la collaborazione, altre volte capita che siano i coach a farlo. Nella maggior parte dei casi il rapporto non si chiude molto bene”.
A queste complicazioni se ne aggiungono altre specifiche per il tennis femminile, dal momento che vengono assunti tantissimi uomini sia come coach che come membri del team dell’atleta. Come mi ha raccontato Maria Sharapova, nel 2018: “Ci sono dinamiche molto diverse, che nascono perché sei una donna che gestisce un team, un team composto anche di uomini, e perché spesso sei la più giovane”. “Per una donna è difficile andare dall’uomo e dirgli: “Ti licenzio”, spiega Kasatkina, con una risata. “E’ una situazione difficile da gestire. Ma a volte devi trovare il modo di farlo. Certo, è sempre meglio porre termine al rapporto rimanendo in buoni rapporti, ma non sempre è possibile”.
Kasatkina, 24 anni, è una giocatrice professionista da oltre otto anni. Nata in Russia, le sue ambizioni di carriera l’hanno portata a trasferirsi da sola in Slovacchia a 17 anni, ma ora vive in Spagna. Ancora oggi, scuote vigorosamente la testa quando le si chiede se ora si sente adulta, dopo aver gestito tutte queste responsabilità da così tanto tempo. “Non ancora. Non nella mia carriera, ma neanche nella mia vita privata”, risponde. “Posso fare la seria, ma credo che ci debba sempre esser spazio per la ragazzina, perché il tennis è un gioco e io penso che nei giochi i ragazzini siano più bravi degli adulti“. Poi ride.
Traduzione di Giulia Bosatra