Non c’è dubbio che nella giornata di mercoledì l’All England Club abbia preso una di quelle decisioni che verranno ricordate negli anni a venire, a patto che non ci sia un rapidissimo dietrofront, al momento comunque molto improbabile. Se i posteri la considereranno buona o cattiva, quello lo deciderà la Storia nelle prossime settimane.
Nonostante la sua meritata reputazione di “ultimo bastione della tradizione”, fino ai limiti dell’anacronismo (si veda la strenua resistenza del bianco come unico colore da indossare per giocare a tennis), Wimbledon ebbe il merito nel 1968 di porre fine all’era dell’ipocrisia, quella nella quale si distinguevano i tennisti professionisti che prendevano soldi alla luce del sole da quelli dilettanti che li prendevano sotto banco, aprendo le porte al tennis Open. La decisione di escludere i tennisti russi e bielorussi dalla prossima edizione dei Championships in risposta alle atrocità perpetrate dalla Russia in Ucraina potrebbe avere un impatto simile, anche se di respiro sicuramente più ampio perché non coinvolge solamente il microcosmo del tennis, ma ha ramificazioni geopolitiche di non secondaria importanza.
La decisione del 1968 divenne la goccia che scatenò una reazione a catena da parte di tutti gli altri tornei del mondo, a partire da quelli dello Slam, che si accodarono a Wimbledon nel permettere ai professionisti di partecipare ai loro eventi, cambiando per sempre il volto del circuito tennistico mondiale. Forse nel buio della loro cameretta i dirigenti dell’All England Club speravano di essere seguiti dai loro “colleghi” nella stessa maniera, ma hanno evidentemente fatto male i conti. Solo la Lawn Tennis Association (la federtennis inglese), che per quasi il 90% è finanziata dai proventi di Wimbledon, ha deciso di appoggiare la decisione di bandire russi e bielorussi dai propri tornei, mentre il resto del mondo tennistico è rimasto alla finestra a osservare gli sviluppi oppure si è scagliato apertamente contro questa iniziativa, come hanno fatto prontamente ATP e WTA oltre ad alcuni giocatori di punta come Novak Djokovic.
La situazione venutasi a creare è certamente delicata e paragonata dal Daily Telegraph a una “guerra civile” del tennis, che oltretutto presta il fianco a sviluppi legali di non poco conto. Come era già stato sottolineato da varie testate nelle scorse settimane, l’All England Club, in qualità di “club privato”, ha uno status che lo pone maggiormente al riparo da rappresaglie legali nel caso in cui adotti misure apertamente discriminatorie (come certamente è questa) per regolare l’accesso alle proprie strutture e ai propri eventi. Non è questo il caso, invece, per la LTA, che potrebbe trovarsi in acque molto più agitate in un aula di tribunale, sia in quanto federazione sia in quanto detentrice di tornei all’interno dei due Tour.
Questa situazione pone anche gli altri Slam in una posizione leggermente diversa rispetto a Wimbledon: se da una parte è vero che anche gli altri tre Majors, essendo formalmente entità indipendenti, hanno una maggiore autonomia rispetto agli altri tornei dei Tour, dall’altra sono comunque di proprietà delle rispettive Federazioni nazionali (Tennis Australia, la FFT e la USTA) che sono associazioni non-profit orientate alla promozione del tennis e i cui statuti potrebbero mal sopportare l’emanazione di esclusioni apertamente discriminatorie come questa.
Non è difficile, in questo scenario, immaginare una serie di cause legali, individuali o di classe, che potrebbero far precipitare il tennis in una situazione di grande incertezza non dissimile a quella vissuta il gennaio scorso con la vicenda della partecipazione di Novak Djokovic all’Australian Open: ingiunzioni e contro-ingiunzioni a pochi giorni dall’inizio di un grande torneo che creerebbero il caos nei tabelloni inficiando senza dubbio la regolarità della competizione.
Nel suo commento alla vicenda, il tennis correspondent del Daily Telegraph, Simon Briggs, ha fatto opportunamente notare come al vertice dell’All England Club ci sono manager relativamente inesperti: dopo la recente dipartita dello storico presidente Phil Brook e dell’amministratore delegato di lungo corso Richard Lewis, alla plancia di comando del Club più prestigioso del mondo sono arrivati la 47enne Sally Bolton, che viene dal rugby e non ha grande esperienza tennistica, e il 74enne avvocato Ian Hewitt, che tra un anno dovrà lasciare la carica di presidente per raggiunti limiti di età. Tanto loro quanto il presidente della LTA Scott Lloyd non hanno le conoscenze e i contatti a livello internazionale che sarebbero stati opportuni in una situazione così delicata.
Per trovare una presa di posizione tanto radicale quanto impopolare da parte di un torneo dello Slam bisogna tornare indietro di due anni, quando nel pieno della pandemia di COVID-19 la Federazione Francese decise in maniera totalmente unilaterale di spostare il Roland Garros dalla primavera all’autunno, senza nessun tipo di coordinamento con ATP e WTA a livello di calendario e scatenando una catena di reazioni negative. Alla fine la devastazione provocata dalla pandemia nel solitamente rigidissimo programma annuale dei tornei fece ammorbidire la posizione nei confronti del Roland Garros, che comunque accettò di spostare il torneo una settimana avanti rispetto alle date che si era “accaparrato”, portando da una a due le settimane di distanza dallo US Open e portando comunque a casa la disputa del proprio torneo nonostante un numero molto esiguo di spettatori permessi sugli spalti a causa della seconda ondata di COVID-19.
Sulla questione Wimbledon ora bisogna vedere come risponderanno le altre parti in causa. I giocatori esclusi potrebbero passare per vie legali, con possibilità di successo che al momento sono piuttosto nebulose, ma non dubitiamo che possa esserci qualche studio legale londinese che sia disposto a buttarsi a pesce sulla questione, magari per farsi un nome. Come detto, al momento gli eventuali querelati potrebbero essere l’All England Club e la LTA, con il secondo in una posizione un po’ più traballante del primo per quanto già spiegato.
I due tour hanno emanato comunicati di fuoco a stretto giro di… internet (la posta non si usa più per questi scopi), usando senza mezzi termini le parole “discriminazione” ed etichettando la decisione come “ingiusta” e che rischia di creare “un pericoloso precedente” per il tennis.
A livello contrattuale, se un torneo ATP dovesse escludere un giocatore sulla base della sua nazionalità sarebbe in violazione del Regolamento ATP, regola 8.01B che sancisce come “i tornei si impegnano ad accettare le iscrizioni sulla base della Classifica ATP”, con l’unica eccezione consentita nel caso in cui il torneo si disputi in un Paese nel quale è necessaria la vaccinazione contro il COVID-19 come condizione per l’ingresso degli stranieri.
In caso di violazione sono previste sanzioni fino a 250.000 dollari e un “cambiamento di status del torneo, previa approvazione del Board ATP”. Ciò significa che potrebbe essere intaccata la quantità di punti assegnata dai tornei stessi, fino ad essere potenzialmente azzerata.
Per quel che riguarda gli eventi WTA, nella Sezione XII del Regolamento, il punto C3 prevede le “pari opportunità”, specificando che il torneo deve “essere aperto a tutte le categorie di donne senza alcuna discriminazione”.
La pena per una violazione del regolamento potrebbe arrivare anche alla “squalifica” del torneo, ovvero la perdita della settimana in calendario e l’esclusione dal circuito WTA. Un caso analogo fu sul punto di verificarsi nel 2010 quando alla israeliana Shahar Peer fu negato il visto per partecipare al Dubai Duty Free Open in un periodo in cui la situazione nella Striscia di Gaza erano particolarmente calda. Alla fine l’intervento deciso della WTA a livello diplomatico risolse la situazione, anche se Peer fu costretta a giocare sempre sui campi secondari, con il pubblico tenuto a debita distanza, e a cambiarsi in spogliatoi separati per poter essere sempre controllata dalle guardie di sicurezza.
È evidente che l’unica arma a disposizione di ATP e WTA nei confronti di Wimbledon, oltre che degli altri tornei “ribelli”, sia quella della distribuzione dei punti. In quella che sarebbe a tutti gli effetti un’istanza di separazione (se non di divorzio), i due tour potrebbero “declassare” gli eventi che adottano pratiche discriminatorie e trasformarli in esibizioni, seppure ricchissime come Wimbledon che quest’anno distribuirà un prize money superiore ai 35 milioni di sterline (circa 42 milioni di euro). Proprio questa montagna di soldi dovrebbe mettere lo Slam londinese al riparo da un altro possibile boicottaggio simile a quello del 1973, quando 81 degli ammessi in tabellone, comprese 12 delle 16 teste di serie, decisero di non giocare per mostrare la loro solidarietà allo yugoslavo Niki Pilic, che era stato squalificato dalla sua federazione per non aver partecipato a un incontro di Coppa Davis.
Quell’episodio fu il seme che fece poi nascere la Association Tennis Professionals (ATP) che nacque come “sindacato” dei tennisti prima di trasformarsi nell’animale ibrido che conosciamo. Se il sentimento della maggior parte dei giocatori nei confronti di questo “ban” dovesse essere unanime, la claudicante Professional Tennis Players Association (PTPA) di Djokovic e Pospisil potrebbe approfittare di questo episodio per raccogliere consensi e ottenere un profilo superiore a quello marginale che ricopre oggi, anche se gli obiettivi dichiarati della associazione sono piuttosto differenti.
Tuttavia non sembra che arrivare al muro contro muro possa portare alcun vantaggio al tennis nel suo complesso: uno degli sport più divisi al mondo non ha certo bisogno di altri scismi, e soprattutto non ha bisogno di altri asterischi nel caso in cui Wimbledon 2022 non dovesse essere considerato valido per la classifica mondiale e il suo vincitore si trovasse fuori dai Top 10 o escluso dalle Nitto ATP Finals. La speranza è che la diplomazia riesca a prevalere. E non soltanto nel tennis.