Ero già pronto a fare una ricerca sui match più lunghi della storia del tennis, visto come si erano messe le cose, oltre tre ore di gioco fra Rafa Nadal e Sasha Zverev e non erano nemmeno finiti due set. 185 minuti per 24 game meno un un tiebreak (10 punti a 8) durato 18 minuti esatti: senza considerare le pause dei cambi campo la media per game sfiorava i 7 minuti (6,958333333…so che alcuni lettori sono pignoli).
Andando a quel passo il record del Roland Garros di Giustino-Moutet (2020), 6h e 05 m, victoire 0-6, 7-6, 7-6, 2-6, 18-16 sarebbe stato ridicolizzato e, en passant, anche quello sulla distanza dei due set su tre stabilito nel 2009 nella semifinale di Madrid fra Djokovic e Nadal, 4 ore e 3 minuti, sarebbe stato polverizzato…se Rafa Nadal fosse riuscito a portare a termine la terza maratona in sei giorni.
Otto ore e mezzo fra Aliassime e Djokovic, più altre tre ore nel giorno del suo compleanno, facevano già oltre 11, quando Zverev non sembrava per nulla disposto a fargli il suo regalo (salvo quando doveva mettere in campo la seconda di battuta oppure quando, sul secondo dei 4 setpoint consecutivi nel tiebreak condotto 6-2, aveva messo fuori una comoda volee di rovescio, quasi un rigore).
Già, proprio così. Nel drammatico momento in cui Zverev è finito a terra, urlando di dolore per la distorsione alla caviglia destra – un’immagine davvero terribile con lui sdraiato che batteva i pugni a terra per essersi subito dolorosamente reso conto che la sua partita era finita proprio nel momento in cui un dritto lungolinea di Rafa conquistava il secondo tiebreak del match – il dubbio che il match potesse non avere un epilogo naturale sembrava decisamente più legato alla condizione fisica di Rafa Nadal che a qualcos’ altro.
Ho guardato le oltre tre ore del match, avvitato a un seggiolino della tribuna stampa accanto a Luca Marianantoni di Gazzetta e scambiando contemporaneamente di tanto in tanto impressioni whatsapp con mio figlio Giancarlo che a Firenze guardava l’appassionante duello alla tv – apprezzando su Eurosport la telecronaca dell’ottimo duo Federico Ferrero e Barbara Rossi – e vi posso garantire, scambiando commenti anche con altri vicini di banco, che non ero davvero il solo a pensare che continuando a quel modo difficilmente l’irriducibile Rafa l’avrebbe spuntata, se non avesse vinto nuovamente al tiebreak anche il secondo set mille volte pregiudicato da Zverev (ma un pochino anche da lui stesso in almeno deu break subiti). Ma, tuttavia, sono anche quasi sicuro che avrebbe giocato anche quel secondo tiebreak con lo stesso infinito coraggio del primo.
Mai dare per bollito Rafa, per carità, ma che fosse parecchio stanco mi pareva evidente. A Zverev, il fragile Zverev quando si trattava di chiudere un set, il primo come il secondo, sarebbe bastato nel prosieguo del match continuare a mantenere con pazienza e intraprendenza il pallino nei lunghi palleggi – 33 punti fatti su 53 negli scambi fra 5 e 8 palleggi, 20 su 36 in quelli con più di 9 palleggi – e perfino il fenomeno immarcescibile Nadal avrebbe prima o poi finito inevitabilmente la benzina.
Invece è successo quel che è successo. La scivolata dello sfortunatissimo Zverev è stata rovinosa, il replay televisivo impressionante, rabbrividente. Ho avuto la sensazione che il malleolo avesse sfiorato l’argilla rossa. Mi sono subito augurato che non si fosse rotto i legamenti. Ma comunque sia andata, qualunque sia il verdetto, non gli ci vorrà poco a rimettersi, temo. Lo dirà l’ecografia. Ma secondo me sarà un mezzo miracolo se potrà riallenarsi come si deve prima di Wimbledon. Era iscritto a Halle (13 giugno), ma lì se lo possono scordare.
In quasi mezzo secolo da “voyeur” non ricordo di aver mai visto un tennista che, costretto al ritiro per un infortunio, fosse poi tornato sul campo con le grucce per stringere la mano all’arbitro, all’avversario e ufficializzare la resa.
E comunque mai in un incontro di questa importanza, fra uno che aspirava –e aspira – a vincere il suo quattordicesimo Roland Garros e un altro che aspirava a diventare n.1 del mondo già due giorni dopo, cioè questa domenica (quando sulla carta avrebbe dovuto essere considerato favorito contro Ruud se…non avesse avuto paura di vincere).
L’unica volta che avevo visto un giocatore, anzi due, entrare con le grucce su un campo da tennis fu uno scherzo: Ion Tiriac e Ilie Nastase qui sul Philippe Chatrier che al Roland Garros tornavano a giocare insieme da vecchietti per un match di leggende (quali certo sono stati e non solo in Romania).
Di ritiri per infortuni a seguito di cadute (e non di stiramenti o crami che sono cose diverse) ne ho visti invece alcuni (e, scusate il personalismo, uno anche vissuto di persona, ahimè, in finale a Forlì in un torneo di seconda categoria quando dopo 3 games il romano Bruno Orecchio mi giocò una diabolica palla corta sulla quale caddi peggio di Zverev senza essere Zverev: un mese di gesso in piena estate…e warning ancora adesso!) a cominciare da un Becker-Scanlon a Wimbledon 1984 con Boris sedicenne che contro il texano di 11 anni più anziano continuava a tuffarsi sull’erba come se fosse in piscina, finchè si fece anche lui una terribile storta e dovette abbandonare il match sul 6-2,2-6,7-6,1-2 per Scanlon. Accade l’anno prima di trionfare nel primo dei suoi tre Wimbledon (1985-1986-1989).
Di uscite dal campo in seggiola a rotelle qui ne ricordo due: la più recente qella di Kiki Bertens contro Sara Errani (2020) quando Sara perse 9-7 al terzo dopo aver servito invano 3 volte per il match, aver visto svanire un matchpoint e all’indirizzo dell’olandese che sui crampi sul campo ci aveva indubbiamente marciato un po’ disse frasi pesantucce assai (“Non mi piace essere presa per il c**o…”, fu solo la più gentile fra quelle).
Nel più lontano 2014 fu Shuai Peng a rimanere quasi paralizzata dai crampi agli US Open in semifinale con la Wozniacki e a dover uscire con la seggiola a rotelle. Assomigliò un po’ ai crampi che attanagliarono Stefano Pescosolido in Davis con il Brasile a Maceiò, quando rimase rigido come un baccalà e fu portato fuori a braccia.
Ma il mio ricordo forse più vivido è la finale di Coppa Davis a Mosca 1995, quando Pete Sampras vinse 6-4 al quinto con Chesnokov (che in semifinale aveva battuto Stich annullandogli 9 matchpoint!) con un dritto vincente nel colpire il quale finì per terra in preda ai crampi più spaventosi che io ricordi.
Miglior timing non poteva esserci… però fu portato anche lui fuori dal campo a braccia, come Pescosolido, perché non riuscì nemmeno a stringere la mano a Chesnokov e all’arbitro a fine primo match di quella finale che praticamente vinse da solo. Tre punti su tre. Infatti il giorno dopo Pete vinse il doppio al fianco di Todd Martin e nella terza giornata battè anche Kafelnikov. Sulla terra rossa lenta dell’Olympic Stadium e contro Kafelnikov e tutta Madre Russia non fu per nulla facile. Il mio titolo fu: “La resurrezione di Pete”.
Già, perché sulla terra rossa di Parigi, quello stesso anno 1995 Pistol Pete aveva perso al primo turno. Dall’austriaco Gilbert Schaller.
Nel 1990, mio primo Australian Open per Tele+ ricordo che Gabriela Sabatini si era storta una caviglia nel corso di un match di terzo turno con la tedesca Claudia Porwik, ma venne ugualmente in seggiola a rotelle in sala stampa dopo che io avevo chiesto se era possibile intervistarla. Sei anni prima lei aveva arbitrato una finale del torneo giornalisti a Montecarlo fra l’argentino Guillermo Salatino e il sottoscritto (che le aveva fatto ottenere una wildcard al torneo junior di Santa Croce sull’Arno, naturalmente vinto). Credo che venne da me in segno di riconoscenza, anche se io non avevo insistito, pur essendo quello il mio primo Australian Open da “intervistatore ufficiale”.
Il Rebound Ace quando faceva caldo a Melbourne era terribile. Ci si restava appiccicati con le suole. Quell’anno – ma anche nei seguenti – ci furono diversi ritiri, non so più quante distorsioni e anche Mark Woodforde, il mancino dei due celebri Woodies, ne fu vittima.
Scusate tutte queste divagazioni che magari vi annoiano, ma le scrivo per mettere al servizio dei lettori una memoria storica che i più giovani non possono avere. Spero non disturbi. Se ne può certo fare a meno, magari non saranno interessanti, ma almeno li ho vissuti di persona e con il dito sul cellulare basta scrollare giù e leggere altro.
Del resto la cronaca dei due primi interminabili set l’ha già scritta per Ubitennis e in modo più che esauriente Vanni Gibertini.
Io posso solo aggiungere che non ricordavo di aver mai visto Nadal perdere il servizio 4 volte di fila (per prendere uno dei rarissimi 6-0 ne bastano tre…), anche se in due di quei servizi persi in una serie di ben 8 break in 9 games –situazione che per solito non si registra che in qualche singolare femminile e non fra giocatori capaci di battere sopra i 200 km orari – Rafa era stato avanti 40-15, nel secondo e nel sesto game di quel pazzo, anomalo secondo set. Né ricordavo di aver visto un giocatore della forza di Zverev, un aspirante in quel momento a diventare n.1 del mondo se fosse riuscito a vincere questo torneo… capace di perdere un set nonostante 4 setpoint consecutivi e di non chiuderne un altro quando ha servito per sul 5-4 e ha commesso ben 3 doppi falli, pur cercando di mettere la seconda palla in campo, con battute fra i 230 e i 240 km orari.
Mi sono detto in quei momenti: ma che potrebbe mai combinare il fragile Sasha se domenica fosse in finale e in lizza per diventare n.1 del mondo, ma non gli entrasse la “prima”? Ricordate Thiem-Zverev, finale US Open 2020?
Ecco, mi sono spiegato. Quella volta Zverev dominò i primi due set giocando con la stessa aggressività con cui ha giocato oggi i primi due, rovesci missili, ma anche dritti possenti e senza paura. La paura gli venne dopo. Anzi, si trattò di vera tremarella. 15 doppi falli e una serie di regali simili ad alcuni che ha fatto anche ieri con Nadal, sebbene non avesse alcuna intenzione di celebrarne il compleanno. C’era davvero anche parecchia umidità, sotto il tetto, palle più pesanti del solito –e a Rafa non piacevano davvero: “Non prendevano lo spin…” – la mano sudava, la segatura non usa più dai tempi di Lendl e a un certo punto al tedesco gli è pure volata via la racchetta in modo imbarazzante mentre voleva avventarsi su una palla per colpire un dritto senza misericordia.
Io confesso che pur avendo assistito da Montecarlo 2003 a 19 anni di “Rafa-legend” e a non so più quanti suoi miracoli maiorchini –e davvero strepitosi, proprio miracolosi sono stati due spettacolari passanti di dritto nel tiebreak del primo set, uno incrociato e stretto, l’altro lungolinea sul quinto setpoint: solo quei due del magnifico repertorio Nadal valevano il prezzo del biglietto! – non mi sarei sentito di scommettere dieci euro sulla sua vittoria dopo quei due set interrotti così drammaticamente. Senza alcuna pietà e comprensione per i sogni di Sasha. Lasciatemi dire che si è trattata di una conclusione triste e ingiusta, anche se certo Nadal ha 14 anni di crediti da riscuotere. Ma, ripensandoci, non ne ha forse già riscossi parecchi?
Ripensandoci ancora: non solo Rafa ha vinto un match che probabilmente – mi scusino i tifosi di Nadal se la penso così nonostante l’indubbia fragilità di Zverev – avrebbe finito per perdere se si fosse protratto per altre due ore come sembrava dovesse, ma si è risparmiato anche quelle due o tre ore (almeno!) che avrebbero potuto pesare moltissimo anche in caso di sua vittoria nel match di finale contro Casper Ruud.
Meglio di così, sia detto cinicamente, non gli poteva andare a fine di una giornata in cui non era stato brillantissimo e aveva subìto più che dettato gioco, fosse o no colpa della palle. Di certo giocava molto più corto del solito e questo aiutava Zverev a comandare di rovescio come di dritto. Per come è finita, davvero buena suerte senor Nadal, come dicono al suo Paese.
SPUNTI TECNICI: MARIN CILIC AO 2018, Lo sventaglio di dritto per l’assalto al titolo
Ruud ha già trovato in semifinale un Cilic già pago della semifinale raggiunta a caro prezzo a quasi 34 anni dopo la battaglia di cinque set con Rublev. Ha perso un set e dominato gli altri tre con l’intermezzo di 10 minuti della ragazza che ha pensato bene di incatenarsi alla rete per mandare al mondo un messaggio globale sulla necessitò di evitare l’eccessivo riscaldamento della terra. E ora il buon Casper non sa quale razza di Nadal incapperà domenica. Il miglior Nadal? Un Nadal spossato per metà?
Di certo non potrà contare sulla sua collaborazione, né su quella del pubblico che sarà dalla parte del maiorchino come e più di sempre. Intanto è certo che la finale Nadal-Ruud è un’incredibile spot pubblicitario per l’Accademia di Nadal a Manacor.
Ruud ha cominciato a frequentarla 4 anni fa, quando il suo idolo era Rafa Nadal. Ora se lo ritrova per la prima volta di fronte in una partita vera e non in un allenamento… accademico (forse un tantino menomato, ma chissà se è vero) per l’appuntamento più prestigioso della sua carriera. Come reagirà. Da freddo nordico, quale sostiene di non essere –“Da ragazzino gridavo e spaccavo racchette…”?
Avrà una terribile pressione sulle spalle, lui che nell’ultimo anno e mezzo ha vinto più partite sulla terra rossa di chiunque altro, ma la freschezza della sua età e forse l’intima convinzione di non aver nulla da perdere, nonché la ragionevole presunzione che più il match andasse per le lunghe e maggiori diventerebbero le sue chances di successo, potrebbero equilibrare il fattore campo e il fattore esperienza. Due fattori che davvero non gli appartengono.