Chi sa di tennis, e per lo spessore del personaggio anche chi non ne sa, sta piangendo la scomparsa di Gianni Clerici. Non intendo omaggiarlo, ci hanno già pensato mirabilmente il mio quasi omonimo Agostino Nigro e il direttore Scanagatta nel suo video ricco di sentimento.
Qui voglio parlare di un concetto molto caro allo scriba, la bellezza insita nel tennis. Clerici dedicò uno dei suoi libri a Suzanne Lenglen, la divina, sì, quella del campo del Roland Garros, forse il più suggestivo al mondo insieme al Pietrangeli. A guardarne foto seppiate e video online si può capire l’afflato di Gianni per la tennista di Parigi, la Lenglen pare che danzi ad ogni colpo, in particolare quando sguaina il rovescio come un fioretto: una mossa definitivamente artistica, oltre che tecnica. Suzanne vinse molto e fu influencer ante litteram su temi che negli anni ’20 del secolo scorso scuotevano le coscienze conservatrici – femminismo, professionismo sportivo, anticonvenzionalità. Ma sopra ogni cosa lei era bella da vedere giocare a tennis, come Becker, come Edberg e altri pittori con la racchetta amati da Clerici.
Sulla scorta della sua passione per la bellezza mi sono tornati in mente i commenti all’articolo che, nel mio minuscolo, scrissi su Ubitennis in occasione dei quarti di finale tra Djokovic e Auger Aliassime agli ultimi internazionali d’Italia: in molti mi rimproverarono l’eccessiva severità nel definire il match bruttino ancorché combattuto, non cogliendo la mia declinazione personale di brutto e bello, tutta incentrata sul gesto tecnico quando non addirittura artistico, come per la Lenglen. Nole e Felix disputarono una partita intensa, atleticamente ammirevole, ma di bei colpi se ne videro ben pochi e concentrati tutti nella mezz’ora finale.
Ora riavvolgiamo il nastro a giovedì scorso: nella desolazione dell’ipertrofica offerta televisiva, Rai Play mi segnala il film “Borg-McEnroe” imperniato sull’epica finale di Wimbledon 1980. In sala non l’ho visto, è l’occasione per rimediare. La pellicola, scialba e sbilanciata verso lo svedese, ha l’unico merito di stimolarmi a ripassare la sfida originale: da YouTube ripesco il video completo del match e ne vedo il primo set. Bjorn e John sembrano giocare al rallentatore tanto la palla corre piano, certo è colpa della grana dei vecchi video ma molto si deve alla lentezza del tennis di quarant’anni fa e alla “morbidezza” del legno rispetto all’esplosività della grafite odierna. Però, come volleava McEnroe, come passava Borg!
Quando arresto la visione, gli algoritmi di YouTube mi suggeriscono subdoli il Federer-Sampras di Wimbledon 2001, il famoso cambio della guardia. È tardi, tardissimo, eppure non resisto alla sintesi di quell’ottavo di finale gustato in diretta vent’anni prima. Malgrado una già accentuata dominanza del colpo-servizio, Roger e Pete sfoggiano l’intero campionario di cosa si possa fare su un campo da tennis e di come farlo al meglio.
Già che ho perso il sonno, a video terminato sono io a scandagliare la rete: cerco e trovo un filmato benemerito masticato una cinquantina di volte, i 100 punti più belli di Roger Federer. E per 45 minuti godo come le altre cinquanta volte: perché quei 100 punti rendono inutile qualsiasi dissertazione sulla bellezza del tennis, racchiusa tutta nel braccio dello svizzero.
Sennonché è compito di un decente cronista dare voce alle emozioni, Clerici docet. Proviamoci allora ad approfondire l’argomento.
La prima considerazione è banale: la bellezza prescinde dalla vittoriosità e viceversa. Federer è meraviglioso da vedere e qualcosina ha vinto, Shapovalov è bello e non ha – ancora? – vinto niente. Djokovic ha trionfato ovunque ma anche i Noliani più convinti dovranno ammettere che sotto il profilo meramente stilistico non vale il suo numero 1, peraltro ampiamente meritato sul campo. Guardando indietro, lo stesso discorso può valere per Courier o Wilander o Stich, quest’ultimo nei panni del bello non vincente.
Seconda considerazione, la bellezza nel tennis è intrecciata a doppio filo con la varietà, quella abilità ormai di pochi di esibire una soluzione tecnica sempre, o quantomeno spesso, diversa dalla precedente, e di farlo mantenendo alto il livello estetico del colpo. È la galassia ristretta dei Gasquet, dei Kyrgios, dei Dolgopolov prima che indossassero l’elmetto e, perché no, dei Musetti. L’incidenza di tale propensione alla differenziazione – del saper giocare un’elegante stop volley dopo un lungolinea di rovescio, un lob pennellato cui segue un drop shot o un kick a uscire – la sua naturale capacità di gonfiare il cuore dello spettatore sono testimoniate dalla infinitamente maggiore affluenza di pubblico sui campi dove scendono i cesellatori della racchetta piuttosto che i pur apprezzabili, e magari vincentissimi, fabbri ferrai del binomio servizio-dritto, gli Hurkacz, i Raonic, i Cilic.
È una qualità del tennis, la varietà, forse la sua più distintiva. Prendiamo gli sport più diffusi: il calcio, che pure amo, vanta un’importante gamma di colpi – il traversone, il tiro, il passaggio, il dribbling – ma fateci caso, sono atti standardizzati, omologati; a parte rare eccezioni – il cross di Beckham, la punizione di Ronaldo, l’assist di Pirlo – la pedata al pallone appare quasi sempre uguale a se stessa, non rivela un’identità netta, riferita al singolo piede del singolo calciatore, che sia top player o semiprofessionista di Serie D.
Nel tennis no, ognuno ha il proprio peculiare avvicinamento alla palla, la propria impugnatura – eastern, western, continental, semi western in tazza grande, eccetera – la propria apertura, il proprio swing, la propria chiusura di movimento: ognuno è riconoscibile in base alla forma del suo colpo, non alla sostanza dell’ottenimento del punto, come viceversa nel calcio, dove è l’eventualità del gol a dare consistenza e visibilità all’azione personale (non è un caso che i replay del football sottolineino assai di rado il valore estetico di un tocco non culminato in gol o quasi gol, come diceva Carosio).
Il contrasto si acuisce con riferimento al basket – ormai sul parquet il 70% degli attacchi si esaurisce in un tiro da 3 sovente cercato nei primi secondi di possesso palla – o alla pallavolo, governata in modo dispotico da schiacciate e battute al salto. Per non parlare di altre discipline individuali, nuoto, sci, atletica, in cui si deve solo sbracciare, scivolare, sgambare, e la differenza tra gli atleti riguarda unicamente il tempo finale delle rispettive performances (è vero, ogni 25 anni nasce un Lewis o un Bolt, qualcuno che rende unico, e bello, il gesto atletico, ma succede appunto ogni 25 anni).
È questa la ragione per cui, tornando al nostro sport preferito, occorre combattere la crescente arroganza del servizio magari, come ho azzardato nell’articolo sulla rivoluzione regolamentare delle Next Gen Finals, attraverso l’introduzione di nuove disposizioni che ne limitino l’impatto sugli scambi, preservando la possibilità che si allunghino così da generare il più ampio ventaglio di colpi al loro interno. La questione è dirimente su erba e cemento, nelle paludi di terra battuta ancora si contano cinque, sei colpi in media a scambio e salgono le probabilità di ammirare qualcosa che non sia una pallata a 220 all’ora – va detto però che a Parigi si è visto un tennis piuttosto povero, monocorde, giusto Rune, Alcaraz e lo stesso Musetti on fire dei primi due set con Tsitsipas hanno sciorinato uno spettacolo “à la Lenglen”, il resto è stato fisicità e tigna.
C’è dunque da sperare nei nati dopo il 2000, in concomitanza con il citato Federer-Sampras di Church Road, che siano loro a riportare la bellezza al centro del rettangolo rosso o verde o blu; che siano loro a far gioire di nuovo lo scriba, appollaiato lassù con la penna in mano, sopra una nuvola a forma di racchetta.