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Da lunedì scorso l’ATP ha finalmente aperto al coaching “libero”: durante il match ora assisteremo a un più scorrevole dialogo tra allenatore e giocatore, non più delegato a illegittime quanto smaccate gestualità, bensì sdoganato anche nella parte verbale, pur con persistenti limitazioni. In sintesi ora i due potranno parlarsi, e ciò aumenterà il già consolidato appeal del cosiddetto “box”, l’angolo di riferimento tecnico-affettivo dei tennisti.
Per noi che non abbiamo più vent’anni salta all’occhio la progressiva attenzione che la televisione ha nel tempo dedicato a parenti e team degli atleti: i registi hanno via via capito che le smorfie di madri, fidanzate e fisioterapisti aggiungono spettacolo allo spettacolo e hanno infittito le inquadrature, in un’alternanza sempre più sinergica tra rettangolo di gioco e tribuna. Per carità, non che in passato le telecamere non indugiassero sul cipiglio avvocatizio del padre di McEnroe, sull’impassibilità marmorea di Lennart Bergelin, il coach-mentore di Borg, o sull’avvenenza discussa di quella Patti McGuire che Jimbo Connors strappò alle copertine di Playboy. Ma erano immagini di corredo, occasionali, varianti frivole sul tema dominante e serissimo degli scambi tra i giocatori. Oggi le frequenti zoomate sui volti preoccupati o raggianti o distesi dei familiari rappresentano una tessera irrinunciabile dell’articolato mosaico televisivo tennistico, un contraltare efficacissimo a stemperare e insieme esaltare l’agonismo esasperato del campo.
Cosa sarebbero le imprese dei Big 3 senza il riverbero dell’esultanza sugli spalti dei loro cari? Mere vittorie sportive, gloriose ma prive di narrazione, dell’epos che solo l’occhio prensile del grande fratello sa regalare. Prendiamo l’angolo di Rafa: è come tornare alla Sicilia prerisorgimentale, uomini e donne rigorosamente separati, da una parte i mille fratelli Nadal convinti di governare, dall’altra il gineceo composto da madre, sorella e moglie, che gestendo il focolare domestico, e i tic dell’amato figlio, fratello e sposo, finisce per contare assai più dei pur potenti viceré spagnoli – recuperate online la bellissima foto di Xisca che accarezza Rafa negli spogliatoi dopo l’ennesimo trionfo a Parigi e capirete cosa intendo.
Meno folcloristica ma altrettanto compatta e determinante la famiglia Federer. Al compassato aplomb borghese dei genitori Robert e Lynette, irreprensibili nei loro colori pastello, fa da contrappunto il piglio di Miroslava Vavrinec, detta Mirka, la moglie-balia di Roger, la sua prima tifosa, disposta anche a oltrepassare i confini non scritti del bon ton elvetico per agevolare la vittoria del marito – chiedere a Wawrinka di quel “piagnone” urlatogli dalla signora Federer al Master 2014. È lei la vera mental coach di Roger, altro che Lüthi o Ljubicic, e le telecamere lo sanno.
Diverso il caso dei Djokovic. Spesso presenti sugli spalti, soprattutto negli Slam, papà Srdjan e mamma Dijana mediaticamente spaccano, non tanto per il look da pizzaioli balcanici il cui primogenito ha fatto i soldi – non me ne vogliano i pizzaioli e i balcanici, ma al cospetto degli altri genitori VIP i due paiono ogni volta seguire le istruzioni sconsolate di una sartoria – quanto per la grana della loro partigianeria estrema, espressa in realtà più nelle conferenze stampa deliranti che sulle poltroncine dei box, dove invece risaltano i cappellini di paglia e gli ombrellini da sole di Jelena, madame Nole, appena uscita da un quadro di Renoir. Utilissimi al racconto televisivo, rimane forte il dubbio che i Djokovic lo siano anche in relazione ai successi del figlio, che anzi sembra sovente combattere contro due fuochi, quello nemico degli avversari e quello amico della famiglia.
A causa del fisiologico appannarsi dei mostri sacri – se è consentito parlare di appannamento per coloro che hanno vinto sei degli ultimi sette Slam – da qualche tempo sono saliti alla ribalta i clan della ex next-gen. Tralasciamo i dolori del giovane Zverev, il gelo di casa Ruud, i pupazzetti parlanti di mamma Shapovalov e concentriamoci sui due personaggi più interessanti.
Molti lo chiamano Madman, per la natura diciamo imprevedibile. Ora che vive il paradosso di occupare il n.1 del ranking senza aver vinto un torneo da Us Open 2021 – cinque finali perse su cinque – la sua bizzarria elettrica, perfino attrattiva in un’epoca di deprimente anonimato tennistico, è purtroppo sporcata da un crescente e molesto nervosismo. Stiamo parlando naturalmente di Daniil Medvedev da Mosca: quel Medvedev che un mesetto fa ad Halle ha pesantemente insultato il coach Gilles Cervara provocandone l’uscita dal campo – agli occhi del russo Cervara sarà stato l’unico colpevole della scarsa competitività nei confronti di Hurkacz, fin lì, e fino alla vittoria finale, decisamente superiore. Daniil si è poi scusato, ma non con Cervara, con la moglie Daria, la cui mimica facciale raccontava di un mal dissimulato fastidio verso le intemperanze del marito.
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Distante nell’aspetto e nello spirito, Tsitsipas emula Medvedev nella tendenza a eleggere il parentame quale capro espiatorio per l’insoddisfacente rendimento sul campo. Il ruolo di parafulmine è impersonato soprattutto da papà Apostolos, altrimenti detto il re del coaching furtivo: ecco, la neonata possibilità di colloquiare senza punizioni col figliolo ci priverà dei suoi show, fatti di alfabeto muto, sgranchimenti improvvisi, sguardi da scopone scientifico; guadagneremo però in trasparenza e buon senso, ché fanno davvero specie i warning e le multe per uno “Stefanos, scendi a rete” smozzicato tra i denti. E comunque rimarranno le gustosissime gag tra Apostolos e Julia, siparietti coniugali degni di Casa Vianello: Stefanos sbaglia un rovescio? Julia chiude gli occhi, arriccia la bocca, gira la testa verso Apostolos e, senza guardarlo, gli dice qualcosa che ha il sapore di un nefasto oracolo greco. Stefanos conquista un set? Julia chiude gli occhi, arriccia la bocca, gira la testa verso Apostolos, stavolta tace, riapre gli occhi e fa il pugnetto al figlio. Figlio che recentemente ha virato dal machismo omerico alla teatralità delle farse di Aristofane, tutto ghigni sarcastici, linguacce e monologhi peripatetici.
Tra i nati dopo il 2000, la nuova next gen, affascinano gli entourages di Alcaraz e Rune. Il primo ha in coach Ferrerouna sorta di dr. Frankenstein la cui creatura sta sfuggendo di mano al creatore. C’è ancora molto compiacimento, lo si vede bene quando il pupillo gioca e vince facile: Mosquito e il suo sosia Juanjo Moreno – fisio di Carlitos – abbozzano un sorrisetto di gradimento non troppo sorpreso, come a dire, che fiuto abbiamo avuto a vedere nel ragazzino un fuoriclasse. Ma c’è anche una sorta di turbamento, come a dire, quando Carlos capirà che ha tutto per gestirsi da solo e si prenderà pure una laurea in medicina per cucirsi le ferite come Rambo, a tutti noi ci licenzierà all’istante.
Rune ha la fortuna-sventura di avere la mamma coach, donna peraltro gradevolissima e misuratissima, come schiatta danese impone. Il diciannovenne Holger le si scaglia addosso ad ogni gratuito per poi accucciolarsi sotto la sua ala a fine match nella più trita rappresentazione freudiana del conflitto madre-figlio: dal ranking in ascesa la messinscena psicanalitica però pare funzioni.
Guardiamoci in casa adesso. Chi più chi meno, anche in base alle diverse latitudini, i nostri corazzieri interagiscono volentieri con le anime in subbuglio appese qualche gradino più su. Berrettini, per esempio, si porta ovunque dietro l’intera stirpe, avesse un criceto o un pesce rosso ci sarebbero pure loro ad applaudirlo. Al martello romano evidentemente piace quel clima da domenica al mare che si riflette nell’allegria da famiglia Bradford di madre, padre e fratello: che il congiunto vinca o perda, loro sorridono, come se stare lì fosse ogni volta un regalo inaspettato. Questa spensieratezza è la loro forza, trasmette a Matteo altrettanta forza che va a mescolarsi con la sapiente guida tecnica di coach Santopadre, ecco lui magari un po’ meno rilassato degli altri in tribuna.
Lo staff di Sinner è decisamente più congelato, forse in ossequio alle sue radici sudtirolesi. Partito Piatti e in attesa di vagliare Cahill, per ora emerge l’ombrosità in corso di partita di Vagnozzi che lo apparenta al pessimismo cosmico del conterraneo Leopardi; pessimismo subito abbandonato al “game, set and match” per il rosso della Val Pusteria – perché in fondo è dolce naufragare se quel mare si chiama Jannik.
Musetti si è circondato di persone brave e competenti, si vede, però Tartarini, che isolato dal contesto ricorda i latinlover anni Settanta della riviera romagnola, affiancato al preparatore Petrignani fa molto Soprano, con la Polo al posto del gessato. Con lui Muso ha un rapporto di scambio continuo, di occhiate, dritte, incoraggiamenti, è comprensibile vista la lunga collaborazione però, forse, eccessivo: Lorenzo avrebbe bisogno di affrancarsi dalla sua protezione emotiva, di camminare sulle proprie gambe, altrimenti quel terzo maledetto set con serbi e greci non lo porterà mai a casa.
E poi ci sono Sonego e Gipo Arbino, il mio preferito, l’unico coach che sembra appena rientrato da una battuta di pesca, pronto per il cicchetto al bar. Me lo ricordo bene l’anno scorso a Roma, quando il suo ragazzo, quello cui ha messo la racchetta in mano, stava toreando Djokovic. Arbino aveva gli occhi umidi e a Sonny urlava “Sei un leone!”. Difficile non avere in simpatia Lorenzo ma Gipo gli vuole proprio bene, come un padre, più di un padre. E se pure il ranking dovesse calare ancora, al ragazzone di Torino questo basta e avanza.
Menzione a parte, in realtà meriterebbero un intero articolo o perfino un libro, per la coppia Camila-Sergio, in arte i Giorgi – e così allontaniamo pure eventuali accuse di misoginia a parlare sempre e solo dei maschietti. Confesso la mia incapacità di decifrarli: a prenderli separatamente sono entrambi libri aperti, Camila fragile e testarda, Sergio inquieto e polemico. È il loro rapporto a sfuggirmi. Al di là del naturale attaccamento padre-figlia, cosa porta una giocatrice ad affidarsi ancora a un coach per il quale ogni punto implica il rischio di un ictus? Lo avete presente Sergio Giorgi, l’uomo che mica si mangia le unghie, se le strappa, l’uomo che gira la testa sui matchpoint, che parla da solo, che frigge sulla sedia, nemmeno fosse quella elettrica. Camila ha le sue colpe ma con un padre-coach tanto instabile e ansiogeno aver vinto il poco che ha vinto è già un miracolo.