Sabato scorso si è conclusa l’esibizione della Diriyah Tennis Cup. Tre giorni di partitelle, un primo turno a base di tie-break, un milione di dollari come primo premio, il tutto anticipato però dalle polemiche. Prima di partire, il n. 1 britannico Cameron Norrie aveva glissato sulla possibilità di essere usato dal regime saudita per distogliere l’attenzione dai diritti umani violati in nome di qualcosa di più importante. Sascha Zverev non aveva risposto sull’argomento. Nick Kyrgios ha sbattuto in faccia al mondo i tanti soldi intascati per giocare venti minuti. Quest’anno, più che in passato, l’attenzione per i grandi eventi sportivi è rivolta anche a quello che c’è dietro. Sarà l’effetto dei mondiali di calcio in Qatar, sarà che aumenta il numero di coloro che si fanno sentire, sarà un risveglio delle coscienze. O, forse, coincidenza.
La nostra storia comincia a metà novembre. In realtà, molto tempo prima, ma partiamo dal momento in cui Norrie ce l’ha fatta. Secondo qualcuno, c’era già riuscito un paio di settimane prima quando aveva criticato l’ATP per quello che giudicava un doppio standard. Da una parte, l’associazione dei pro aveva mantenuto valida per Wimbledon la regola che permette a un campione Slam di qualificarsi per le ATP Finals arrivando tra l’ottavo e il ventesimo posto della classifica; dall’altra, aveva privato dei punti gli stessi Championships, rendendoli così inutili per la Corsa a Torino. Mancanza di coerenza, quindi, alla base di una critica, condivisa da Fritz e Kyrgios, diretta appunto all’ATP e che nulla aveva a che fare con Djokovic, del quale nessuno dei suddetti pensava che non meritasse di andare al Masters. Condivisibile o meno, il Cam-pensiero aveva un suo fondamento. Ma, dicevamo, poi è riuscito davvero a dire una cosa sbagliata. Una questione che ha avuto risalto sui media britannici, tra i quali il quotidiano The Telegraph. Il motivo è presto detto.
Succede che Norrie accetta di partecipare alla Diriyah Tennis Cup, l’esibizione in Arabia Saudita in scena dall’8 al 10 dicembre. Insieme a lui, Alexander Zverev, Stan Wawrinka, Dominic Thiem, Nick Kyrgios, Taylor Fritz, Andrey Rublev, Stefanos Tsitipas e Daniil Medvedev, vincitore nel 2019 della prima e finora unica edizione che gli ha fruttato un milione di dollari di montepremi. A loro si aggiungeranno Matteo Berrettini, Hubert Hurkacz e Dominic Stricker. L’Arabia Saudita non è un gran bel posto sotto diversi punti di vista: le violazioni dei diritti umani sono sistematiche, vengono repressi i diritti alla libertà di espressione, associazione e riunione, i difensori dei diritti umani vengono condannati e incarcerati, così come coloro che esprimono opinioni non linea con quelle del governo in ambito politico o socioeconomico, continuano i bombardamenti di abitazioni civili e ospedali nella guerra contro lo Yemen – solo per menzionare alcuni aspetti osservati da Amnesty International. Se poi a qualcuno sembra troppo generico, si può pensare all’esecuzione di massa di 81 uomini dello scorso 12 marzo. Oppure a quella che è un’attività quotidiana per parecchie decine di milioni persone: andare su Twitter. Per Salma al-Shehab, studentessa saudita all’Università di Leeds, ciò ha significato una condanna a trentaquattro anni di reclusione per “aver fornito un supporto a coloro che cercano di provocare agitazione pubblica e destabilizzare la sicurezza civile e nazionale”. In che modo? “Seguendo i loro account Twitter”, secondo le motivazioni riportate dal quotidiano The Guardian. 34 anni di carcere per una pacifica attivista dei diritti delle donne dovrebbero rivelare la dimensione di ciò di cui parliamo. E no, non si possono giustificare discriminazioni, repressioni, torture e omicidi in nome della libertà di un governo di esprimere sé stesso. Come fa rabbrividire chi sostiene di dover accettare tutto questo in nome dell’inclusione. Libertà e inclusione sono strade a due sensi: non è che le si possa invocare per privarne gli altri.
Perché parliamo di uno di quegli Stati che fanno comodo per i soldi, il petrolio e altre belle cose a seconda degli interessi in gioco, ma a un certo punto bisognerebbe tirare una riga. L’ha fatto la WTA con la Cina nel caso Peng Shuai, anche se non tanto per la situazione “diversamente democratica” del Paese, quanto perché è stata toccata una propria tennista. Insomma, non è che la Cina fosse il paradiso dei diritti e che sia possibile giudicare quello che è successo a Shuai come qualcosa di totalmente inaspettato, ma, al contrario, è potuto accadere proprio a causa di quella situazione. Dalla Cina arrivavano vagonate di soldi per il tennis femminile e la questione non pareva esattamente centrale nel dibattito tennistico fino a poco più di un anno fa. L’impressione è che si facesse finta di niente, che poi è quello che, a un livello molto più alto di un’associazione sportiva, quasi tutti hanno fatto con Putin fino a che non ha deciso l’invasione dell’Ucraina. Funziona così, giusto o sbagliato che sia. No, è sbagliato e se ne pagano le pesanti conseguenze.
Da un po’ di tempo, l’Arabia Saudita è uno di quei Paesi a cui viene imputato di distrarre l’attenzione dai temi “caldi” usando gli eventi sportivi – “sportswashing” è il termine inglese della pratica (in italiano di solito perde la S di mezzo), ovviamente smentita dagli interessati. Ma non è un mistero né una novità che le autocrazie usino lo sport come propaganda.
Tornando finalmente al nostro espediente narrativo camuffato da protagonista, è così che Norrie ha attirato su di sé le critiche di Amnesty International UK mentre si accingeva a partecipare all’esibizione saudita. Un evento, ha replicato il tennista, che “mi permette di allenarmi con alcuni dei migliori giocatori del mondo e potenzialmente di vincere l’Australian Open”.
Di nuovo, come per le sue parole nel caso non-Djokovic, per cui era irrilevante che Nole usufruisse o meno della regola Slam per qualificarsi alle Finals (non ne ha avuto bisogno dopo il ritiro di Alcaraz), non importa quale sarà il risultato di Cameron a Melbourne. La sua posizione non diventerà peggiore o migliore, né lui avrà avuto torto o ragione se, rispettivamente, perderà al primo turno o alzerà il trofeo. Quando ti fanno notare che ti stai rendendo complice dello sportwashing, rispondere che giocare un’esibizione può farti vincere uno Slam appare talmente priva di senso che richiama alla mente un bambino che si tappa le orecchie e parla a vanvera per evitare di sentire la verità. Ma se avesse invece senso, almeno dal punto di vista tennistico? Norrie ha davvero dichiarato al mondo che aumentare le proprie chance di vincere uno Slam compensa la possibilità che si stia prestando come uomo immagine dietro al quale un regime cerca di nascondere i propri orrori?
Anche a Andy Murray fu chiesto di giocare un’esibizione del genere qualche anno fa, ma lui non accettò: ”Conosco diversi ragazzi del Tour a cui è stato offerto di giocare là. Molti top player hanno rifiutato. Io non ci andrei a giocare” aveva detto lo scozzese. A proposito di top player, proprio gli altri Fab Four erano stati contattati per un’esibizione. Era il 2018 e, se da Roger Federer era arrivato il rifiuto, poi motivato con un laconico “non volevo giocare lì, per me è stata una decisione rapida”, per Rafael Nadal e Novak Djokovic la loro sfida dicembrina pareva ormai cosa fatta dopo l’annuncio di ottobre. Annuncio giunto sei giorni dopo l’omicidio dello scrittore e giornalista saudita Jamal Khashoggi, critico nei confronti di Mohammad bin Salman, principe ereditario e all’epoca già considerato leader de facto del Paese, in seguito ritenuto il mandante dell’omicidio da un’indagine dell’Intelligence statunitense. Il match tra Nole e Rafa fu poi annullato a causa dell’operazione alla caviglia a cui si sottopose lo spagnolo.
Secondo Felix Jakens di Amnesty UK, “Cameron ha una grande piattaforma e un’influenza autentica e dovrebbe usarle per mostrare solidarietà verso persone come Salma al-Shehab. Ciò che l’Arabia Saudita sembra cercare in queste competizioni è una sorridente stella dello sport che diligentemente eviterà di parlare di diritti umani – Cameron dovrebbe far sentire la propria voce”.
Jakens ha aggiunto che “tutti quelli che giocheranno a Diriyah capiranno che questo torneo non è che un altro esempio di come l’Arabia Saudita stia cercando, grazie allo sport, di lavare il suo elenco insanguinato di diritti umani violati”. Norrie, tuttavia, si è rifatto alla solita scusa, tanto collaudata quanto inappropriata: “Non sono un politico e non penso sia giusto per me essere coinvolto nelle singole politiche dei governi”.
Secondo questa replica probabilmente non ragionata, incarcerare e uccidere gli oppositori sarebbe politica esattamente come lo è redigere la legge di bilancio. Riguardo invece alla prima parte della risposta, se fossero solamente i politici di professione a occuparsi di questioni che riguardano il benessere delle persone e i loro diritti, probabilmente i diritti civili, sociali e politici sarebbero concetti indistinti come il lontano vocio d’una folla. Su cui spara la polizia, così imparano a scioperare. Ne è ben conscia per esempio Coco Gauff, che unisce l’impegno politico e sociale a quello tennistico secondo una semplice constatazione: “Prima di tutto sono una persona, parlare è una mia responsabilità“. Non che tutti debbano o possano avere la sensibilità, la voglia o il tempo di far sentire la propria voce contro ingiustizie e discriminazioni e c’è perfino qualche tennista che si impegna più su Twitter che sul campo per sostenere e gioire di quelle ingiustizie.
Norrie è n. 14 ATP e primo giocatore di Gran Bretagna, un anno fa era alle ATP Finals e, se sui social non va neanche vicino ai numeri di Andy Murray o dei Big 3, una base di oltre 160.000 follower fra Instagram e Twitter costituisce proprio quella piattaforma di cui parlava il rappresentante di Amnesty International e comporta una responsabilità per le proprie scelte e dichiarazioni. Andare a giocare l’esibizione è una decisione che, volente, nolente o non cosciente, lo coinvolge nelle “politiche” dei governi proprio come lo sarebbe stato rifiutarsi di partecipare. Una decisione a tutti gli effetti politica e non semplicemente perché il “personale è politico”, uno slogan che forse Cameron non ha mai sentito, bensì proprio in forza di quello status di tennista di alto livello, di fama internazionale, che il regime – secondo tanti osservatori – intende sfruttare.
Come detto, non si può chiedere al ventisettenne brit di impegnarsi o pretendere che rifletta su temi che non giudica importanti o rispetto ai quali giace nell’erronea convinzione di non avere alcun peso. Lo stesso discorso, va da sé, vale anche e a maggior ragione per gli altri partecipanti dai nomi altisonanti. E, appunto, il quotidiano svizzero Luzerner Zeitung ha titolato “Come Alexander Zverev si rende il burattino dei miliardari del petrolio saudita”. Le domande dell’autore Simon Häring sono rimaste senza risposta perché Mischa, fratello e manager di Sascha, ha rifiutato la richiesta.
In questo modo, preso atto che né per lui né per gli altri qui è dove tirare la famosa riga, Zverev aveva almeno evitato repliche “discutibili” come quelle di Norrie. Tuttavia, nella successiva video intervista per il canale YouTube dell’esibizione, anche il tedesco assente da sei mesi per infortunio ha detto di non voler rientrare direttamente in Australia perché un conto è essere in forma atleticamente, un altro sono i match. Sulla falsariga tedesca anche Berrettini, “qui per capire il mio attuale livello”. Come spesso rimarcato da qualsiasi pro al rientro, la vera discriminante è piuttosto tra partite di allenamento e match ufficiali e qui parliamo di un’esibizione. Però ci sono tanti soldi in palio, un valido motivo per vincere. Allora, i ragazzi potrebbero affittare un campo, mettere sul tavolo 100.000 euro a testa e il problema sarebbe risolto.
I soldi sono stati tirati in ballo da Nick Kyrgios che, punzecchiato su Instagram a proposito dell’assenza in Coppa Davis (“eri impegnato a comprare altre borsette?”), ha replicato: “Sto per andare in Arabia Saudita per [un compenso a] sei cifre”. Quest’anno il milione di dollari destinato al vincitore è andato a Fritz, che se l’è sudato molto meno rispetto al non dissimile assegno di Indian Wells, circa $ 1.230.000. Tre match con un tie-break al posto del terzo set invece di sei incontri quasi per la stessa cifra: chissà se Taylor si è chiesto dove sia il trucco. Fatti una domanda e…
Torniamo infine a Cam, uno dei meno famosi del gruppo (per adesso, visto che giustamente mira al n. 1 del mondo), eppure colui che con quelle dichiarazioni ci ha fornito lo spunto. In un Paese come il suo dove ci si può esprimere senza essere incarcerati o peggio, ma non è obbligatorio farlo in ogni occasione, questa volta scegliere rimanere in silenzio sarebbe probabilmente stata la decisione più saggia. Mentre quella di non andare alla Diriyah sarebbe stata da vero leader.